di CARLO MIGNOLLI
Cantieri abbandonati, mattoni privi di intonaco e addirittura scale mobili nel bel mezzo del nulla: questi sono alcuni esempi del “non finito” calabrese, tema di una mostra con dibattito annesso, ideata e allestita dall'associazione “Non" presso l'Ex Comac di Soverato. L’evento si concentra sul concetto di "opere incompiute", trasformandole in un nuovo stile artistico che ha guadagnato rilevanza a livello accademico, artistico e filosofico. Inizialmente considerato come debolezza territoriale, questo stile ora si presenta come un punto di forza, aprendo nuove prospettive internazionali. Concetto di non finito ripreso, nel senso di incompiuto interiore, anche nelle opere esposte durante la serata da parte dei ragazzi di “Amatori Arte”.
Il talk, mediato da Sarah Procopio, ha visto la partecipazione di Angelo Maggio, fotografo e autore del progetto “Cemento Amato”, Andrea Zito, autore di “Calabria Ultra” e Alessia Rubino, autrice de “L’architettura incompiuta”. Essi hanno offerto una prospettiva più ampia sull'argomento. La direzione artistica di Miriam Belpanno, presidente dell'associazione.
"Non", sottolinea l'obiettivo di rivalutare gli aspetti negativi della regione da una prospettiva estetica e infrastrutturale. La scelta dell'Ex Comac di Soverato come location è significativa, poiché trasforma un'abbandonata struttura di 1500 metri quadri in un vibrante polo culturale capace di ospitare eventi artistici e culturali, simboleggiando la trasformazione degli "incompiuti" in opportunità.
Maggio afferma: “A mio parere i fabbricati non finiti sono dei monumenti alle aspettative deluse dei calabresi. La mia attenzione è sempre stata rivolt alle opere incompiute dei privati: mi hanno sempre incuriosito le abitazioni costruite da dei genitori per dei figli che non sono mai andati ad abitare quelle case, dunque difficilmente nella mia carriera da fotografo mi sono occupato di “non finiti” pubblici. Ho iniziato a fotografarli per caso e quello che mi ha maggiormente colpito è che le persone li davano per scontati, talvolta non li notavano neanche: questo mi ha incuriosito e ho deciso di avviare questo mio percorso”.
Rubino aggiunge: “Ho da subito visualizzato il fenomeno nella sua identità di dato sulla nostra storia e dato antropologico su quello che è il nostro passato e il nostro presente. Non vogliamo proporre una visione estetica spicciola di questo fenomeno perché innanzitutto ne riconosciamo il lato storico, ma allo stesso tempo drammatico, che rappresenta. Nel mio lavoro, che si occupa di arti visive, ho cercato di spostare il mio punto di vista verso gli esperimenti che artisti e architetti del mondo, hanno condotto sul tema delle architetture non finite, che presuppongono anche un modo di abitare e vedere il progetto della loro casa diverso dalla norma. Le architetture non finite calabresi possono essere paragonate a tanti altri esempi di architetture fuori dalla norma, definiti, nell’ambito dell’arte e dell’architettura, come cantieri permanenti: un progetto che non conosce una fine e che può condensarsi in un oggetto da abbandonare, ma è anche una rovina, un relitto della contemporaneità cue fa molte più domande rispetto a qualsiasi altro relitto pieno di passato”.
Zito conclude dicendo che: “Non sono un architetto e non sono neanche un fotografo come Angelo, mi occupo di semiotica, questa parola difficile che si occupa di segni, quelli che sono i segni culturali e di linguaggio. Il mio lavoro dunque è stato un lavoro in ottica comunicativa. La parola “interruzione” è giusta per affrontare tale fenomeno ed io cerco di spiegare la mia indagine da un punto di vista estetico. L’incompiuto è esattamente un’interruzione, un’interruzione del tessuto urbano. Cos’è che ci cattura, che ci attrae nell’immediato? È proprio l’interruzione di un qualcosa che è “normale” o “quotidiano”. Io ho usato il termine frattura perché l’incompiuto ti da proprio questa sensazione di frattura del tessuto urbano. Camminando per strada si notano questi pilastri di cemento che si innalzano verso l’alto e la prima cosa che noti non è “oddio è un incompiuto”, no, noti proprio questa verticalità, questa estensione verso l’alto in relazione con il terreno che ti da una sensazione di cattura proprio, cattura l’attenzione ancora prima di interpretarlo. L’interpretazione che si da dell’incompiuto è un qualcosa di più avanzato a livello cognitivo, io poi interpreto quell’incompiuto come una rovina o come un cantiere come diceva anche Alessia e li poi do un’interpretazione diversa”.
La lettura dal vivo di un racconto scritto da Vittorio Mancuso e la proiezione del docufilm "Oh Rovina! Breve saggio sul non finito calabrese" di Domenico Lagano, menzionato anche durante la XX edizione del Magna Graecia Film Festival, hanno arricchito ulteriormente, insieme agli interventi e le domande dei presenti, il contesto dell'evento.
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