Sovraffollamento in carcere. Bilotti: "Ora un'amnistia (o la Costituzione che ci manca)"
Domenico Bilotti
14 marzo 2020 11:40
di DOMENICO BILOTTI
Uno dei rischi più evidenti nel sistema giuridico italiano è che le norme di civiltà siano spesso consapevolmente forzate dall’opportunismo di alcuni loro presunti destinatari. Ricordiamo la legge n. 104 del 1992 che si poneva finalmente sul piano della legislazione sociale l’integrazione delle diverse abilità e la loro assistenza; il nostro ordinamento ha prodotto purtroppo migliaia di utilizzi abusivi di quel tessuto normativo e ciononostante esso ha colmato una lacuna grave e chi se ne è avvalso con pienezza di titolo ne ha tratto dignità e sostegno. Ancor prima, potremmo citare la legge n. 194 del 1978, la cui dinamica applicativa ha fatto veramente poco per la tutela sociale della maternità e ha prodotto due disfunzioni perfettamente simmetriche: chi ne ha incoraggiato la vigenza nell’ottica di una malintesa secolarizzazione della morale sessuale e chi, all’opposto, ha fomentato le obiezioni di opportunità e di comodo, creando squilibri territoriali importanti nell’esercizio del diritto correlato all’interruzione di gravidanza.
Questa premessa fa capire come l’argomento più utilizzato contro una seria ipotesi di amnistia, a beneficio della popolazione penitenziaria, sia infondato (“se ne avvarrebbero tanti lestofanti”). Tanti lestofanti si avvalgono, in verità, delle norme più significative e apprezzabili di tutto il nostro diritto.
Negli ultimi dieci giorni è andata in scena una diffusa agitazione carceraria che, in forme diverse, ha coinvolto secondo stime attendibili, poi convalidate da fonti ufficiali, oltre venticinque istituti di pena. Qualcuno ha ipotizzato che questa congiuntura fosse opera di una manovra eterodiretta, ma anche qui l’ipotesi reca in sé qualcosa di profondamente contraddittorio. Alcuni dei soggetti detenuti che sono riusciti a evadere certamente (ed è grave) ambiscono a tornare a delinquere, persino all’interno degli stessi sodalizi criminali cui appartenevano prima di essere processati e condannati. La protesta non nasceva però sulla spinta di questi rei abituali – categoria ormai priva di vero significato legale – ancora da individuare, bensì nel quadro di una situazione di sofferenza delle carceri quanto ai numeri, ai profili igienici e sanitari, ai regimi di esecuzione e, nondimeno, all’attivazione o meno di protocolli idonei all’emergenza da coronavirus che sta tenendo molti col fiato sospeso.
Da questo punto di vista, difficile dar torto alle istanze dei detenuti: l’ingresso negli istituti di pena ha una evidente contrazione legale e regolamentare (il personale autorizzato, i legali, i docenti, gli operatori, i familiari, ecc.), ma sul piano strettamente medico-scientifico quella ristretta barriera normativa non garantisce affatto da tutte le ipotesi di contagio – di qualunque tipo e, in special modo, quelle più volatili, sottili, aggressive e silenziose. Come il Covid-19.
Durante le proteste sono morti numerosi detenuti: le cause di questi decessi, ricondotti nella generalità dei casi a forme di overdose da combinazione farmacologica, saranno senz’altro accertate nelle sedi opportune. Ma è concepibile che sia programmata da parte degli stessi detenuti un’azione dimostrativa in cui non pochi di loro trovano la morte? Cioè, che si programmi accuratamente e di morire e come morire, quando invece si protesta per il bene della vita? Qualche dubbio rimane. Forse queste agitazioni non hanno davvero nulla di eterodiretto e il loro gorgogliare così tumultuoso e contestuale è stato l’ennesimo segno di una situazione che era andata sedimentando. Si possono mettere sotto il tappeto tutto le briciole che si vogliono, ma, come insegnavano i nostri nonni, a un certo punto i tappeti fanno la gobba (dello sporco ammassato sotto di loro, nda) e allora si vede che non hai pulito il pavimento.
Persino taluni ex-garantisti e progressisti cominciano a dubitare dell’utilità di un provvedimento di clemenza. Alcuni affermano che ben altra sarebbe la legalità socialista. E anche questa è una colossale sciocchezza. Senz’altro un sistema socialmente equo, garantendo l’accesso al reddito e formando cittadinanza consapevole, rallenta le possibilità di commissione di un delitto; sistemi però così perfettamente adeguati da estinguere il delitto dal vissuto la storia non ne ha conosciuto. Ha conosciuto semmai sistemi di ogni estrazione politica, religiosa, ideologica e culturale che hanno previsto l’amnistia come strumento di gestione della politica criminale e penitenziaria. Non ci si è chiesti soltanto, in altre parole, se l’amnistia avrebbe consentito all’imputato o al condannato di realizzare meglio il suo ritorno nella società. Ci si è chiesti e ci si è dovuti chiedere ancor prima se quel provvedimento di amnistia avrebbe collettamente avuto effetti positivi o deleteri. Non siamo più in tempi di “uso (strettamente) politico” dell’amnistia. Non è l’Italia del Decreto luogotenenziale del 1944; non è l’Italia del Decreto presidenziale del 1946.
Siamo il risultato di un Paese che per trent’anni, in vigenza peraltro di un diverso codice della procedura penale, tra il 1953 e il 1983, ha dato vita a ben undici amnistie. Quattro dal 1970 al 1981: gli anni, vorremmo ricordarcelo, quando si parla di sicurezza, in cui scoprivamo le stragi e le mafie stragiste, gli omicidi politici e i depistaggi, il narcotraffico e le bande, gli anni del coprifuoco. L’Italia delle faide e del coprifuoco, ecco, uscì da quell’allucinazione intossicante anche grazie all’uso (ragionevole, nemmeno irreprensibile) dell’amnistia. Dal 1990 ad oggi, invece, altro spicchio trentennale, non ce n’è stata nessuna. Nemmeno quando si riuscì ad approvare, in un testo finale di rara mancanza di coordinamento, l’indulto che aveva caldeggiato persino Giovanni Paolo II, nell’estate del 2006, i legislatori si premurarono di associarlo a un provvedimento amnistiale che così avrebbe potuto estinguere oltre alle pene anche i reati – non per svuotare le carceri, ma per non far naufragare i processi per i delitti più gravi, a effetto della natura straboccante del cd. “arretrato penale” che spingeva a celebrare processi a pioggia in assenza di pena!
Giovanni Paolo II, che va di moda criticare come un “non riformatore”, su due cose tuttavia aveva davvero avuto le idee chiare e la vista lunga: il debito pubblico dei Paesi del Terzo Mondo che veniva usato per ragioni speculative, addirittura neocoloniali, e la condizione delle carceri, che presto o tardi avrebbe creato molto più allarme che non sicurezza. Molta più delinquenza, dentro e fuori di esse, che non pacificazione sociale.
Senza avere la nostra Costituzione di Stato sociale di diritto – impalcatura istituzionale pur certo sottoponibile a critiche, ma forgiata dall’impegno di almeno due generazioni di Italiani – oggi l’Iran, proprio per fronteggiare la propagazione del coronavirus nelle comunità segreganti, procede alla liberazione anticipata di migliaia di detenuti per reati a comminatoria infraquinquennale. Non avremmo mai immaginato di potere considerare uno Stato ancora afflitto da sperequazioni interne e contraddizioni teocratiche un modello positivo persino il nostro bellissimo Belpaese.
*Associazione Yairaiha Onlus