Speziali: “La vita che qui si ferma e quella che là continua”

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Vincenzo Speziali
  29 maggio 2022 22:13

 

di VINCENZO SPEZIALI

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Passano le ore e sempre più mi accorgo che Ciriaco è andato via.

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Adesso ne ho consapevolezza, quasi come se essa si fosse materializzata, con tutta la sua prepotente forza, di botto, seppur centellinata come la goccia scavatrice di una pietra in riva al mare.
Si susseguono i giorni -in verità pochi, al momento- epperò il pensiero ritorna a Nusco, a lui, tanto da rendermi prigioniero della sua mancanza, che adesso avverto, eccome l'avverto.
Lo confesso con pudore, anche con sgomento, non perché non gli fossi affezionato, semmai in quanto non avrei in alcun modo pensato che alla fine della giostra -o se preferite- della fiera, avrei avuto così nostalgia di Ciriaco, non più qui, non più presente. 
Solo oggi, proprio adesso, realizzo come il semplice fatto che se ci fosse stato ancora, oppure che avessi potuto -quando avrei voluto- parlargli e incontrarlo, mi rendeva naturalmente, sebbene inconsapevolmente, tranquillo, cioè 'completo': una chiacchera, qualche riflessione, il dispiegar la futura prospettiva, senza mai dimenticare, soprattutto, i 'ragionamendi'!

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È la solita conseguenza di un mondo sul quale cala un inesorabile sipario, però -già però!- che bel mondo era e nel quale, seppur da timida comparsa, ho avuto la fortuna di vivere dopo e di formarmi prima.
Il mio amico e 'collega' Marco Follini (lo definisco collega in quanto è stato, prima del sottoscritto, alla guida del nostro mitico Movimento Giovanile), ha utilizzato nel suo forbito eloquio le parole giuste, nel descrivere quegli anni ormai passati; in un colpo di penna consegnato all'Adnkronos, non solo ha preconizzato che i posteri non saranno clementi con l'attualità decadentista del nostro tempo contemporaneo, ma ha, giustamente, sottolineato la magnificenza dell'era -geologicamente parlando- denominata democristiana et similia.


Ad esempio, Ciriaco e Bettino (dei quali, notoriamente, con orgoglio sono, pure amico, personale, di famiglia e figli) avevano, tra di loro, 'sensibilita` e intenti' differenti, ma pur 'scontrandosi' -era però nel terreno dell'agone politico, non certo in quello dell'effimero velleitarismo di oggi- e pur differenziandosi, condividevano la medesima formula del pentapartito, in luogo al quale si applica la siffatta denominazione (pentapartito, ovviamente), ovvero un innovativo centro sinistra, senza utilizzare l'accezione ideologica di centrosinistra, proprio alfine di non far prevalere le eventuali frizioni, dovute agli steccati ideologici, quindi per meglio dispiegare un'innovativa alleanza di buon governo per l'Italia.


Cosa dire di ciò? Ovvio, maestosità di statisti, i quali governavano credibilmente, non consegnando il Paese 'chiavi in mano' a un banchiere centrale -Draghi, per l'appunto!- certamente bravo, ma, politicamente non comparabile a chi lo scelse come direttore generale del Ministero del Tesoro, cioè un altro amico indimenticabile e mi riferisco a Gianni Goria.


E di chi era 'figlio' e di chi era pupillo, Gianni Goria? 
Preso detto: il 'padre' era Riccardo Misasi -il miglior oratore che la Democrazia Cristiana abbia mai avuto nella sua storia, da De Gasperi ai nostri giorni (e se per questo un politico con gli ultra controdiocchi!), mentre nelle vesti del dante causa 'superioris' ritroviamo Ciriaco!
Intendiamoci, non desidero compiere apologia apoteotica di un mondo antico, troppo sbrigativamente e troppo malamente archiviato, ma ricondurre il filo della ragione, innaffiare le radici dell'identità culturale -e con esse lo stile, già lo stile, che a molti manca- perché è doveroso:
persino Enrico Berlinguer 'il (falsamente!) giglioso' e Giorgio Almirante elegantissimo propugnatore di una Destra nazionale, repubblicana ed europea, si rispettavano e di sovente -seppur riservatissimamente- si incontravano 'vis a vis'.
Ecco, sta pure in ciò, in tali gesti e in siffatte azioni, la dimostrazione per tabulas del tutto nel tutto, non una sineddoche, bensì la materializzazione di questo mondo che sento mio con orgoglio, nonostante la personale e ormai relativa giovinezza e che, soprattutto, almeno ho visto, vivaddio!
E qui ci riportiamo al congedo con Ciriaco, quando con nonchalance mi giro verso Maurizio Misasi e gli dico: "secondo me, il primo che ha visto lassù, sarà stato tuo padre".
Maurizio si scioglie in un sorriso, nel suo volto giocosamente bohemien e, con dolcezza, mi fa" ti sbagli, ha visto non mio padre, ma il suo" , facendomi appunto ricordare il rapporto visceralmente profondo che legava De Mita a Don Giuseppe (cioè il suo amato genitore), al punto tale da avere permesso di coniare, a Clemente Mastella, un neologismo -nel libro che scrisse anni fa-  e cioè "il padre ha imprintato Ciriaco".
Siccome non mi rassegno, allora di rimando e sempre a Maurizio faccio:" hai ragione, però subito dopo ha visto Riccardo e sono sicuro che tuo padre lo avrà atteso con la sigaretta in bocca, per portarlo dal Presidente (mi riferisco, ovviamente a Moro), per poi -sempre tuo padre- fargli vedere l'ufficio e la scrivania che avrà ripreso ad utilizzare, lì dove sono, come sempre in vita, cioè prima e nel passato: vuoi che Ciriaco, non continui assieme a lui a fare politica"?


Maurizio sorride, come per assententire, in quanto è bello immaginare, anche, così il Paradiso, poiché ci si ritrova al meglio, in un posto migliore e con la gente migliore, ma soprattutto in una dimensione di calore divino, che auguro a chiunque di provare, non solo a noi credenti -di tutti i tempi- nonché figli devoti.
Di converso, quaggiù, chi rimane al pari mio, osservando quell'ambito che era la DC (et similia, iterum repeto!), è quasi come se spegnessimo la luce, uscendo dalla stanza: no, invece no, la stanza è ancora lì!
Magari sarà da riammodernare il mobilio -cioè per rendere l'idea, aggiornare ai giorni nostri un  programma, ovvero un' attualità più coeva al mondo di oggi- però la stanza e è ancora lì, dove rientreremo, aprendo porte e finestre -come dice Lillo Manti- e noi, noi tutti -persino Gianni, con o senza Pinotto- la riabiteremo, la rianimeremo, con le nostre presenze, la nostra cultura e la voglia di esserci, non certo per narcisismo, bensì per dovere, verso questo Paese che abbiamo salvato, (ri)costruito e governato -pure bene- e dal quale non ci sentiamo traditi, ma rivalutati.

La stanza è ancora lì, anzi è qui, dove siano noi e dove c'è qualcuno, cioè questo inguaribile sognatore come me, che continua ad affannarsi per ripopolarla e renderla il Salone delle feste.
È la festa della politica. Quella buona. L'unica degna ad essere chiamata politica, per l'appunto.

 

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