Speziali: "Perché si 'uccide' un indagato"

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Vincenzo Speziali
  19 settembre 2022 11:52

di VINCENZO SPEZIALI

Nel 1975, Damiano Damiani, diresse un film con Franco Nero dal titolo macabro, nonché prefigurante trame oscure. L'opera cinematografica era 'Perché si uccide un magistrato', dove tutto, ogni aspetto e qualsiasi indizio, portava all'ambiente giudiziario e sfiorava sospetti di corruzione, in luogo ad una ammantata facciata di integerrimità della categoria, della quale al suo interno, albergavano figuri di confine con gli ambienti malavitosi palermitani.

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Il finale del movie si concludeva con la scoperta più semplice possibile, ovvero il giudice assassinato, fece la fine che fece, per una banale questione di corna e niente più.

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Ho, quindi, riassunto per grandi linee la trama per introdurre due considerazioni, cioè: 1) la categoria in questione, è pur sempre fatta di uomini con debolezze e incertezze, non già da supereroi adamantini a prescindere; 2) il titolo, potrebbe essere parafrasato in un inequivocabile 'Perche`si 'uccide' un indagato', visto che le gogne preventive (da parte degli inquirenti, supportati da certi presunti operatori della stampa, certamente, a loro volta, criminali e criminogeni, in quanto esaltati dal manettarismo e ossequiosi dei P.M. giacobini), possono condurre alla morte di qualsiasi soggetto, il quale, da innocente, rischia di trovarsi in un simile girone dell'inferno. Chiariamo subito, parliamo di cittadini perseguiti in base a follie investigative o meglio, deliranti psicopatie, smerciate come serie indagini, mentre altro non sono che la persecuzione antropologica, umana, politica, sociale e culturale, di alcuni malcapitati, i quali si trovano ad essere vessati da un potere prepotente, che a sua volta diviene il volto violento della dittatura, non quello giusto della democrazia.

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Non parlerò di me - benche` ne avrei ben diritto e/o donde- ma delle vicende di altri, Indipendente dai nomi, che però vi sono e sono tanti e rappresentano carne, sangue, con in più, mille sofferenze suppliziative, ed anche preventive (di condanne, infatti, questi P.M. da cartapesta strapazzata, ne racimolano poche, poiché non reggono ai vai dibattimenti), epperò si deve aver coraggio di dire qualcosa su un argomento similtale, poiché la sclerotizzazione si è metaformizzata, nemmeno in un'emergenza, bensì quale vera patologia di un Paese che da malato -in quanto sotto attacco- risulta moribondo, se non già morto.

Difatti, Tiziana Maiolo, in suo articolo, descrive perfettamente -partendo dalla vicenda Matacena- le distopie e le contraddizioni, di una perversa applicazione interpretativa del codice penale, supportata, talvolta, da un aggravio accusatorio, incentrato e di cui sarebbe perno, un reato inesistente, non solo all'estero, bensì, finanche, nelle norme codificate, del nostro ordinamento giuridico.

Parliamo del famoso, nonché famigerato, 'concorso esterno in associazione mafiosa', che equivale in campo ostetrico ginecologico, al sostenere come vi sia una gravidanza appena appena indefinita, per di più da parte di un uomo, ovvero due cose impossibili, in quanto ossimoriche ex tunc.

Bene, anzi, male, malissimo, perché il reato suddetto e -ribadiamolo!-  non codificato (quindi né lecito e nemmeno legittimo), dà la stura a far strame di qualsiasi elementare diritto di garanzia, in capo a qualsiasi indagato (e, spesso, costui tapino, si ritrova con atti, azioni, documentazioni e testimonianze, apocrife o mendaci, le quali sono a supporto di un'accusa che basa l'intera inchiesta su suggestivi e psicotici teoremi).

Epperò la vita del malcapitato, viene messa a dura prova (assieme a quella dei suoi cari!), fino a creare contraccolpi clinici fatali, per non citare quelli di carattere emotivo: questa assurda invasività, può essere civiltà giuridica? Certo che no! L'Italia ha, in tal senso, una grande tradizione, la quale affonda le sue radici nel Diritto Romano, pero` sembra che dagli anni iniziati nel tetro 1992, il nostro Paese e la dottrina laica in capo a norme e prassi, si rifaccia ad uno Stato cruento e fanatico, come l'Iran degli Ayatollah, dove la parola e le più elementari (chiaramente innocue) azioni, sono represse sulla base non dello Stato di Diritto, ma purtroppo, in luogo alla cultura del sospetto.

Poi, si assiste, persino, a reprimende, nei confronti di chi -come il sottoscritto- denuncia ciò, pubblicamente e con coraggio (perciò chiedo vigilanza attiva, da parte di chiunque e di tutti i cittadini, in quanto se capitasse qualcosa sarebbe una triste conferma), ma non si può e non si deve subire una simile intimidazione alla libertà di pensiero, al netto delle verità concettuali, espresse - anche adesso, pure qui - e per di più garantite dalla Costituzione.

Rispetto, quindi per tutti i magistrati, però quelli che fanno il loro dovere applicando il codice, senza fanatismi, non interpretando il medesimo con fini giacobini (e, spesso, in maniera preventiva, ma inesistente ed inopportuna), oppure credendo che attraverso l'azione giudiziaria bisogna fare giustizia, poiché, semmai, si amministra la legge.

Già, si fa ciò, ovvero quest'ultimo aspetto appena citato, quindi in relazione ad un fuorviante e monstre errore di azione o comportamento accusatorio, ci si ritrova, più volte (con tanti innocenti) a doverli piangere 'causa mortis' e poi chiedersi "Perché si 'uccide' un indagato?"

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