“Riconoscere l’affettività ai detenuti è un principio di civiltà, ma il rischio è snaturare il senso della pena”
25 aprile 2025 14:16“Nel dibattito sul sistema penitenziario italiano, il tema delle cosiddette “stanze dell’amore” - ambienti riservati ai detenuti per momenti di intimità con i propri partner – continua a suscitare opinioni contrastanti. Diritti e morale si scontrano in un terreno delicato, dove la dignità della persona deve convivere con il significato profondo della detenzione. La pena detentiva limita la libertà , non la dignità della persona, vero anche che da un punto di vista giuridico e umano, non si può negare che anche chi è in carcere abbia diritto a mantenere relazioni affettive,la libertà è sospesa, ma la persona resta tale. Il carcere dovrebbe essere anche un luogo di recupero, e non è pensabile che si possa rieducare qualcuno privandolo completamente del contatto umano e affettivo.Allo stesso tempo, non si possono ignorare le riserve di natura etica. La detenzione è, per definizione, una forma di punizione. Chi ha commesso reati – a volte anche gravi – deve affrontare le conseguenze delle proprie azioni.
In quest’ottica, concedere spazi di intimità può sembrare un privilegio fuori luogo, una sorta di premio in un contesto in cui dovrebbe prevalere il senso della responsabilità e della riflessione.La domanda che dobbiamo porci è: qual è il confine tra tutela dei diritti umani e rispetto della funzione rieducativa e punitiva della pena? È possibile mantenere il carcere come luogo di espiazione, senza per questo trasformarlo in un luogo di disumanizzazione? Forse la risposta sta nel trovare un equilibrio. Le “stanze dell’amore” non dovrebbero diventare una concessione automatica, ma un diritto da esercitare con responsabilità. Si potrebbe legare l’accesso a questi spazi a un percorso concreto di riabilitazione, a una buona condotta, a un progetto di reinserimento. In questo modo, l’intimità non sarebbe un privilegio, ma parte di un cammino serio verso il cambiamento.
Il tema resta aperto, ma una cosa è certa: una società giusta è quella che sa punire senza disumanizzare, e che sa ascoltare anche i dubbi etici, senza ignorare i diritti fondamentali. Negare ogni forma di contatto umano significa contribuire a una disumanizzazione che non dovrebbe appartenere a uno Stato civile. Tuttavia, da un punto di vista etico, di fatica ad accettare l’introduzione di questi spazi. La pena detentiva, oltre a essere privazione della libertà, è anche riflessione, responsabilità, e in qualche misura rinuncia. Inserire all’interno di questo percorso momenti di intimità rischia di alterare la percezione stessa del carcere. È ancora un luogo di espiazione o diventa qualcos’altro?
Non si può e non si dovrebbe confondere il riconoscimento dei diritti con l’idea che tutto debba essere concesso. L’intimità, per quanto importante, non è un diritto assoluto quando si è chiamati a rispondere delle proprie azioni nei confronti della società. E sebbene alcuni sostengano che questi momenti possano favorire la riabilitazione, non è detto che la rieducazione passi necessariamente da lì.È verissimo che nessuna società avanzata può permettersi di trattare i detenuti come numeri o corpi da isolare.Ma su un piano più concreto ed etico, le perplessità restano forti. In definitiva, pur comprendendo le ragioni giuridiche alla base di queste iniziative, non la maggior parte dell’opinione pubblica ed interna all’Amministrazione Penitenziaria non condivide l’impostazione.
È davvero questo il messaggio che vogliamo dare a chi ha infranto le regole della convivenza civile? Dov’e’ il confine tra dovere e diritto e punizione e privilegio? E’ questo che si vuole dare a chi ha infranto le regole della convivenza civile? Inoltre, si apre un ulteriore fronte: quello della sicurezza; in un ambiente dove il controllo è fondamentale, permettere rapporti privati puòdiventare un canale per l’introduzione illecita di oggetti o sostanze non consentite. Non si può ignorare il rischio concreto che, attraverso momenti di intimità, si facilitino scambi clandestini all’interno degli istituti.E infine ciò che è rilevante sottolineare e’ il tema del personale penitenziario. Gli agenti non dovrebbero trovarsi a dover gestire situazioni potenzialmente imbarazzanti o spiacevoli, né essere coinvolti – direttamente o indirettamente – in dinamiche legate alla sfera sessuale dei detenuti. Oltre ad essere inappropriato, e’ anche lesivo ed irrispettoso per la loro professionalità e il loro ruolo. Nonostante si comprendano tutte le motivazioni giuridiche del caso,il prezzo da pagare, in termini di senso della pena, sicurezza e dignità del contesto carcerario, sembrano troppo alti.Il carcere non deve essere una tortura, ma nemmeno un luogo dove si attenua il senso della pena.
Si può tutelare la dignità senza sminuire la responsabilità ma la linea di confine è stata superata,perche’ una società giusta sa riconoscere i diritti, ma anche porre dei limiti,e anche questo uno di quei casi in cui il limite pare sia stato superato”.
Lo scrive in una nota Maria Lucrezia Pandolfo vice regionale CON.SI.PE Sindacato di Polizia Penitenziaria.
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