di STEFANIA VALENTE
In un attimo tutto è cambiato, in un solo istante sono crollate le nostre certezze, privandoci di quel senso di onnipotenza che la nostra generazione, quella dei socialchic, quella della febbre da fibra ha creduto nel tempo di esercitare attraverso un clic sul telefonino ed una gestione efficiente di lavoro, viaggi, amicizie.
Il coronavirus ha globalizzato la paura creando distanze interminabili tra noi ed il resto del mondo. Eh si perché la paura, superando la sfera personale e condizionando i comportamenti collettivi ha cambiato sia il nostro rapporto con gli altri, sia la società in cui viviamo. E la cultura della paura, situazione costruita anche da un particolare contesto mediale e politico dal quale emerge una forte ossessione per la sicurezza, impone una risposta forte da parte di leader politici potenti e decisionisti. Le istituzioni sono tenute a garantire l’ordine: la necessità della perdita di un po’ di libertà a favore della tutela della salute e della vita più in generale diventa l’imperativo categorico. La paura viene riscoperta come esperienza affettiva fondamentale nella relazione tra i cittadini e le istituzioni, costituendo il terreno simbolico sul quale esse legittimano il loro potere. Di fronte alla paura scattano le tecniche di controllo e riscopriamo valori quali il coraggio, la speranza spesso estromessi dal dibattito socio-culturale e politico. C’è chi affronta questa patologia deviante attraverso un processo di medicalizzazione delle emozioni che individua nella ragione lo strumento per curarla e governarla. La paura mette in azione la ragione che innanzitutto suggerisce opportune clausole di protezione, un uso illuministico della stessa secondo l’insegnamento di Voltaire: “Un giorno tutto andrà meglio, ecco la nostra speranza”; una ragione pervasa di deismo, ovvero di religiosità razionale, laica, cui si congiunge una moralità laica, dove naturale sta per razionale o, meglio ancora, non soprannaturale. Una ragione che secondo una definizione di kantiana memoria fa uscire l’uomo dallo stato di minorità in cui si trova servendosi con coraggio della propria intelligenza, giustificando l’istituzione di un tribunale della ragione, là dove la ragione è contemporaneamente giudice ed imputato. Rousseau dirà: “Grande e bello spettacolo veder l’uomo uscir quasi dal nulla per mezzo dei propri sforzi; disperdere, con i lumi della ragione, le tenebre in cui la natura l’aveva avviluppato: innalzarsi al di sopra di se stesso; lanciarsi con lo spirito fino alle regioni celesti: percorrere a passi di gigante, al pari del sole, la vasta distesa dell’universo; e, ciò che è ancora più grande e difficile, rientrare in se stesso per studiarvi l’uomo e conoscerne la natura, i doveri, il fine”.
Vi è chi, diversamente, “varca la soglia della Speranza” attraverso la potenza della Fede. Affronta la paura con la ragione della Fede; Fede e ragione come due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della Verità. Ed esaltando la sconfitta di Heidegger si consideri il credere - come affermava San Tommaso - un atto dell’intelletto, avendo per oggetto il vero e tale atto compiendosi per il comando della volontà mossa dalla Grazia di Dio. Assenso dell’intelligenza alla volontà: la ragione non si risana senza la Fede, ma la Fede senza la ragione non diventa umana. Nell’atto di Fede è coinvolta tutta la persona con la sua intelligenza, affettività e libertà. E questo atto non impedisce alla ragione la ricerca ma la stimola e la alimenta.
Al di là dell’importanza terapeutica della Fede, di una Fede che ha il potere di operare profonde trasformazioni, della preghiera come medicina balsamo del corpo e dello spirito, che la scienza ha largamente dimostrato possa influire sullo stato di salute , facendo ammalare di meno e guarire prima, attivando un vero processo di guarigione a livello psico-neuro-endocrino - già Aristotele sosteneva che il medico dovesse limitarsi ad accompagnare la natura del processo di cura, perché l’unico vero strumento di risanamento è la fiducia nell’esistenza di un piano superiore che affinando il senso del divino, rafforza la responsabilità verso noi stessi - i cristiani sono, forse, gli unici rimasti ad avere fiducia nella capacità razionale dell’uomo, nella possibilità di trovare ragioni che diano risposte ai bisogni personali e collettivi.
Ebbene, il cristiano si salva attraverso la Fede. Più forte è il dramma, più forte è la preoccupazione, più forte è il rischio della morte, più forte è la paura, più forte è il bisogno di Dio, di un Dio che ci ripari dalla morte e che ci accolga dopo di essa. “Non avere paura” disse l’Angelo a Maria ed anche a Giuseppe. “Non abbiate paura” disse Cristo agli apostoli ed alle donne dopo la Risurrezione, “Non abbiate paura” esortò Giovanni Paolo II nel discorso pronunciato in Piazza San Pietro il 22 ottobre del 1978. La preghiera, viene in aiuto delle nostre debolezze e ci libera dalla schiavitù della paura.
Trovo che in questo impegno dello Stato a fronteggiare l’emergenza, proteso a liberare i cittadini dai bisogni primari, si siano tralasciati i bisogni spirituali nonostante la stessa nostra giurisprudenza penale li faccia rientrare tra le “indispensabili esigenze di vita”, la cui compromissione ne pregiudicherebbe gravemente la qualità. Lo Stato sta trattando ed affrontando ogni aspetto della paura: paura della morte, paura della crisi economica, paura del consolidarsi della criminalità, paura delle famiglie di non poter dare da mangiare ai propri figli. Cerca, spasmodicamente, di rassicurare i propri cittadini, al fine di evitare disordine e destabilizzazione sociale, ma non sta curando la paura dell’uomo di Fede, ovvero il bisogno del singolo di avere uno spazio in cui poter far scaturire più forte la sua fiducia, il suo legame verso il trascendente. E in un Paese come il nostro che accoglie al suo interno la sede della più alta Autorità Ecclesiastica religiosa del mondo cattolico e che sebbene a vocazione laicista è intriso di spirito religioso, di cristianità, si è mortificato il rapporto del fedele cattolico con la sua comunità. In questo clima di “apostasia silenziosa” risultano obiettivamente non condivisibili le condotte dirette a colpire sacerdoti che in via solitaria si armano di crocifisso per benedire la città o la “caccia ai ladri” all’interno delle Chiese per multare fedeli e parroci indisciplinati. Bene avrebbe fatto lo Stato italiano ad inserire tra le famose cause di necessità anche quella di recarsi in Chiesa, a prescindere dallo spostamento giustificato da altre situazioni di necessità, quale ad esempio quella di recarsi in tabaccheria per la scorta quotidiana di sigarette o in banca per effettuare pagamenti indifferibili o al supermercato per la spesa quotidiana. Le medesime regole che disciplinano i divieti di assembramento all’interno di questi luoghi si sarebbero potute mutuare per gestire i fedeli all’interno delle Chiese. Evidentemente, però, le esigenze del corpo sono più importanti di quelle dello spirito. A chi superficialmente ritiene che il rapporto con Dio sia un rapporto intimo e personale, che non necessità di luoghi particolari perché il corpo è il tempio dello spirito, che Dio è presente in ogni angolo dell’universo, che alberga nel cuore di ogni uomo, vorrei ricordare la centralità che per i cristiani cattolici riveste il Tabernacolo, luogo della Chiesa che custodisce la pisside contenente l’Eucarestia. E’ quello il cuore, il fulcro pulsante di ogni Chiesa, il riferimento importante per tutti coloro che si recano a pregare ed adorare il Corpo di Cristo anche al di fuori delle celebrazioni. E’ lì che i fedeli bruciano d’amore per la reale presenza di Cristo Gesù. Non memoria, ricordo, segno, emblema, ma Presenza Reale. E’ lì che i fedeli in adorazione o visita del SS.mo Sacramento vengono condotti attraverso un dialogo intimo e silenzioso, cuore a cuore con il Salvatore verso la realizzazione di se stessi nella santità. Non si tratta come da più parti sottolineato di assembramenti fanatici o addirittura di isterismi collettivi ma della necessità di esaltare la sacralità e la preziosità di questo luogo e quindi la funzione specifica della riserva eucaristica. Diceva Benedetto XVI: “Il vero amore, la vera amicizia vivono sempre di questa reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale”. Finché saremo in cammino Cristo si servirà di segni e riti che verranno meno solo alla fine, nella Gerusalemme Celeste, dove non vi sarà più alcun tempio. Nell’ultima cena Gesù pose se stesso all’interno di un rito, che comandò agli apostoli di perpetuare e con questa fede lo adoriamo quale centro della nostra vita e cuore del mondo.
Lo Stato italiano si ponga, quindi, in ascolto dei suoi cittadini, fedeli praticanti di una Chiesa viva, compiendo opzioni a favore di essi, non trascurando i loro bisogni ma anzi curandoli ed accarezzandoli.
E allora, in questa direzione, richiamare la Costituzione ed il Concordato, come taluni sono protesi a fare, per reclamare una più ampia libertà religiosa che consenta ai cittadini cristiani cattolici una sorta di status speciale di autonomia dalle decisioni imposte dalle istituzioni italiane, impegnerebbe illustri giuristi ad un estenuante rapporto dialettico che non lascerebbe sul campo di battaglia né vincitori né vinti. E ciò mortificherebbe lo spirito stesso del Concordato là dove “indipendenza e sovranità” non sono da intendere come una prevaricazione di un’autonomia sull’altra bensì come instaurazione di rapporti di collaborazione tra pari, all’interno di un concetto più ampio di unità sostanziale. La ratio del Concordato, così forte e profonda, che io amo definire come la ragione del cuore, compie, al di là dei risvolti politici, un miracolo: consentire a due entità distinte di diventare, nel momento dell’applicazione dell’Accordo, un soggetto unico, in vista della realizzazione di un fine unitario: la “promozione dell’uomo ed il bene del Paese”, nel quale si salda in maniera indissolubile il principio universale delle difesa della vita umana.
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