di MARIA PRIMERANO
Saverio La Ruina approda al Teatro del Grillo di Soverato in una fantastica performance che è Via Del Popolo. Già Premio Ubu 2023 come Migliore nuovo testo italiano e Premio Le Maschere del Teatro Italiano 2023 Nomination migliore novità, La Ruina non si smentisce nella cittadina jonica e dà tutto se stesso.
Grande affabulatore dalle chiare capacità teatrali intrattiene per un’ora e più dissertando su Via del Popolo, una strada di una cittadina del Sud - in fondo la strada che lo ha visto bambino e ragazzo, a Castrovillari - quando ancora si presentava piena di negozi, di esercizi commerciali, di botteghe artigiane e quindi crocevia di gente che trovava nel percorrere il tragitto un’occasione di incontro e di socializzazione.
Voce pacata e tanta grazia quella di La Ruina, per un tuffo nel passato, un amarcord tra valori perduti. Il culto della famiglia, l’amore filiale, i primi amori, le amicizie vere, la passione politica si intrecciano con figure indimenticabili. C’è il padre, la madre, il fratello, lo zio, e ancora, il parroco, il falegname, il medico, il barista, l’avventore, il venditore di fichi d’India. Ci sono i negozi di un tempo, il cinema, le paste profumate dei matrimoni di una volta. E l’emozione che accompagna i ricordi è come lo zucchero filato che più lo mordi più si dipana, ti prende e si svolge.
Ora è tutto diverso. Sparito tutto e tutti, da quando sono subentrati i centri commerciali, Via del Popolo si percorre in un battibaleno e non ci sono più le occasioni di un tempo. Sicché sulla scena La Ruina porta a esempio due uomini, uno che compie il tragitto in una manciata di minuti e un altro che lo percorre in mezz’ora. Sono loro le due facce del tempo, quello attuale e quello passato che non ritorna più.
Via del Popolo è dunque l’emblema di Via del Popolo di una qualsiasi altra città, inghiottita dalla globalizzazione e messa a dura prova da una società sempre più globalizzata, il racconto della tristezza di un tempo andato, perduto e migliore.
Con un vassoio tra le mani che esibisce, al lavoro nel bar che è stato di suo padre e di suo zio, La Ruina va avanti e dietro tra quelle luci, in terra, sul palcoscenico, che simulano la via da percorrere, e brillantemente porta avanti il suo racconto. Il vassoio di lui, birboncello e ancora giovinetto, è ora quello dei ricordi, traboccante di bicchierini invitanti e tazzine di caffè fumanti, e in quel procedere lascia nell’aria profumo di liquore e sapori antichi, rispolvera mode e costumi di anni 60, 70, tra il tintinnio dei flipper e la musica del jukebox.
Ma tutta la gente del bar Rio non c’è, ora è assente. E anche chi passeggiava per quella Via del Popolo non si vede. Oggi questa umanità sparita lascia il vuoto nel cuore, ma rivive nei ricordi che si rincorrono nel tempo e si affastellano nel testo. Saverio è bravissimo a suscitare emozioni e spargerle come fiori da custodire e innaffiare su quel percorso oggi avviluppato in un silenzio assordante e coperto da una coltre di rimpianto per tutto quello che non tornerà più.
A completare l’essenziale scenografia un orologio, quasi spada di Damocle, che pende dall’alto sulla sua testa. La trovata rimanda a “La persistenza della memoria”, quadro del 1931 di Salvador Dalì, opera surrealista per antonomasia, nota anche con il titolo “Gli orologi molli”, in cui gli orologi hanno una forma poco definita, dalla consistenza quasi fluida, liquida, simboli dell'elasticità del tempo. Il senso del quadro è che la percezione del tempo non sembra rispondere alle ferree regole del tempo meccanico misurabile con i nostri orologi e calendari, ma il tempo è fatto anche di emozioni, sensazioni ed esperienza umana. Riconoscere dunque i secondi, i minuti e le ore da vivere è ben diverso che non solo contarli. E La Ruina questo lo sa bene e lo dà a intendere ancora più bene.
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