L'intervento. Tommaso Passarelli su "Quantità e qualità della rappresentanza democratica"

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images L'intervento. Tommaso Passarelli su "Quantità e qualità della rappresentanza democratica"
Tommaso Passarelli
  07 settembre 2020 12:27

di TOMMASO PASSARELLI*

A pochi giorni dalla tornata elettorale che vedrà gli italiani tornare alle urne in vista della consultazione referendaria inerente la riduzione del numero dei parlamentari, imperversa il dibattito sull'esito della stessa. Ad avviso dei sostenitori del "SI", su tutti il M5S, la riduzione del numero dei Parlamentari è necessaria al fine di rendere più "agile e snello" il funzionamento democratico del più alto organismo rappresentativo che il nostro ordinamento costituzionale contempli. A sostegno di tale tesi, viene evocato il vantaggio economico derivante dal taglio degli eletti, che ammonterebbe ad alcune decine di milioni di euro, su base annua. Il ministro degli esteri e capo politico del M5S on. L. Di Maio non ha esitato ad equiparare il taglio degli eletti al taglio degli stipendi, obiettivo che appare primario nelle intenzioni dei promotori della riforma. Ma è possibile ridurre il ruolo dei rappresentanti in Parlamento ad uno stipendio, come vorrebbe l'on. Di Maio? La risposta appare negativa, al solo lume del buonsenso.

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Se da un lato è nota la funzione e più in generale la ratio delle retribuzioni in capo ai parlamentari (permettere l'accesso alle cariche pubbliche anche ai cittadini meno abbienti sul piano economico-patrimoniale e prevenire l'eventuale mercimonio delle pubbliche funzioni), da un altro punto di vista non si comprende come gli eccessi derivanti da privilegi o prassi corruttive possano essere ricondotti direttamente al superiore principio della rappresentanza democratica in seno alle istituzioni repubblicane. La proposta riformatrice appare infatti innervata dal diffuso sentimento, insito nell'opinione pubblica, riguardante le inefficienze della classe politica. Ma la selezione dei rappresentanti non è forse demandata ai partiti politici (per quello che concerne la selezione dei candidati) e al corpo elettorale (per la scelta democratica dei migliori candidati nel corso delle consultazioni elettorali)? È proprio questa, ad avviso di chi scrive, la principale distorsione che sta caratterizzando in negativo il dibattito sull'opportunità di rivedere al ribasso la quantità di rappresentanti in Parlamento. La (sedicente) scarsa qualità dei rappresentanti eletti può essere emendata per mezzo di un taglio drastico alla quantità dei rappresentanti stessi?

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Una risposta immediata ed affermativa rischia di assumere un carattere semplicistico ed irrazionale, indegno dell'argomento oggetto della discussione. L'unica cosa che appare certa, in questa sede, è il distinguo concettuale tra la "quantità" dei rappresentanti parlamentari e la loro "qualità". Nella sua prima formulazione, la carta costituzionale all'art. 56, primo comma, prevedeva che la camera dei deputati eleggesse un rappresentante ogni ottantamila abitanti, proporzione ritenuta congrua dal legislatore costituente al fine di soddisfare il fondamentale principio della rappresentanza democratica. La riforma de qua amplierebbe di molto la forbice, portando il rapporto tra rappresentanti e abitanti a uno su oltre centomila. Se oggi il Parlamento italiano è sostanzialmente in linea con gli standard dei maggiori Paesi Europei (Regno Unito, Francia, Spagna e Germania), il risultato della riforma allontanerebbe e di molto il nostro Paese dagli indici di rappresentanza delle democrazie a noi più vicine.

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Quantità non è, dunque, da ritenersi sinonimo di qualità nella dinamica democratica: la prima, come sopra declinata, discende dal superiore principio della democrazia rappresentativa e assume i connotati di diritto fondamentale della persona ad essere rappresentata adeguatamente in seno alle istituzioni repubblicane; la seconda, appare riconducibile al dovere, in seno al popolo, di esercitare il diritto di voto eleggendo nelle istituzioni democratiche le migliori espressioni della società civile. Il dovere di scegliere i propri rappresentanti, con raziocinio e senso civico, è dunque il contrappeso civile che la democrazia richiede ai cittadini, onde ottemperare all'onere derivante dall'esercizio della sovranità popolare.

Ma c'è un grande assente nel dibattito riformista: il senso dello Stato. Se il ministro degli esteri riduce la rappresentanza democratica ad uno stipendio e se il taglio dei rappresentanti del popolo viene promosso onde tagliare poche decine di milioni a fronte di una spesa pubblica di oltre ottocento miliardi, inevitabilmente registriamo un'alterazione del pubblico dibattito. Il taglio in nome del risparmio lo abbiamo già sperimentato in sede di abrogazione delle province: non possiamo certo dire che la qualità della vita degli italiani ne abbia beneficiato. Ne costituisce testimonianza lo stato di abbandono e degrado che connota le infrastrutture sottoposte alla gestione degli enti provinciali, spogliati delle proprie attribuzioni. Il quantum e il quomodo della rappresentanza democratica sono, dunque, da ritenersi come due momenti separati della rappresentanza democratica, mai coincidenti tra loro: il primo da ricondurre all'alveo dei diritti, il secondo a quello dei doveri.

*Dottore in Giurisprudenza

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