di GALILEO VÌOLINI
Pomeriggio di metà aprile a Trieste. Passeggio per Piazza dell’Unità. Attendo un amico che tra poco mi racconterà nuovamente, aggiungendovi dettagli che non conoscevo, la sua fuga dall’Italia, dove suoi antenati erano giunti, schiavi, 1950 anni fa. Mi cade la sguardo su una piccola lapide nel suolo, postavi nel 2018. Meglio tardi che mai penso, ma certo di tempo ne era passato da quel 18 settembre di ottant’anni prima, quando Mussolini scelse questa piazza per annunciarvi le leggi “contro il nemico irreconciliabile del fascismo”, l’ebraismo mondiale.
Scelta provocatoria, ma fino a un certo punto. Trieste, città cosmopolita. Comunità ebraica culturalmente tra le più vivaci di Europa, legata alla cultura austriaca, e parte di quella italiana. Svevo, Saba, Michelstaedter. Seconda Sinagoga più grande di Europa. Ma anche roccaforte di nazionalismo e capace di credere “nel Suo pensiero che diventava azione”. Suo, ça va sans dire, di LUI. Così scrisse Il Piccolo, giornale fondato da Teodoro Mayer, senatore, ebreo. Giornale allineato al fascismo, ma che pure si era opposto in precedenza all’ipotesi di leggi antisemite, sebbene per motivi campanilistici che però molto dicono dell’importanza della comunità ebraica nella società triestina. Farebbe piacere poter dire che la validità della “scelta” non ebbe conferma. Che quel giorno la piazza rimase vuota. Ma non fu così. La riempirono 150000 persone, così come sarebbe stata piena, il 10 giugno di due anni dopo, Piazza Venezia.
La lapide definisce quelle leggi “macchia incancellabile del regime fascista e della monarchia italiana”. Macchia un po’ più estesa, anche se il testo della lapide pare volerla ridurre. Malattia grave il riduzionismo. Non nega i fatti. Questo è lasciato ai negazionisti, agli Irving, ai Faurisson. Li riduce, li sfuma. Impossibile uccidere tanta gente ad Auschwitz. I forni crematori non potevano bruciare tanta gente. E non dimentichiamo il tifo, secondo entrambi negazionisti e riduzionisti, tremenda epidemia degli anni quaranta in Europa Orientale. Un po’ selettiva, forse. Se ne ammalavano soprattutto gli ebrei. E mica solo nei campi tedeschi, anche in quelli sovietici. Vi furono portati ad ammalarvisi lavoratori ebrei ungheresi. A volte con una incubazione superrapida. Può succedere. Lo ricordavo qualche tempo fa, riferendomi alla narrativa revisionista del caso di Petschauer, campione olimpico di scherma.
Tra due giorni, 16 aprile, sarà Pesach, ricordo del passaggio dell’angelo che salvò i primogeniti ebrei dall’ultima piaga di Egitto. Per i popoli cristiani di lingua neolatina, Pesach fornisce l’etimologia al modo prevalente di ricordare la Resurrezione, che quest’anno accadrà nella stessa settimana per i cattolici e la seguente per gli ortodossi. Settantacinque anni fa, lo stesso 16 aprile ebbe luogo, ad Auschwitz, ormai Oswiecim, l’esecuzione di chi fu comandante del campo di sterminio di Auschwitz, da quando era ancora in costruzione fino al 30 aprile del 1943. Ricordarne il nome? A che scopo? Mai come in questo caso il “sine nominibus” di Cornelio Nepote risulta opportuno. Nel tempo intercorso tra il suo arresto, l’11 marzo del 1946, e la sua impiccagione, scrisse un’autobiografia. Faticosa e dura da leggere, eppure, “uno dei libri più istruttivi mai pubblicati”, scrisse Primo Levi, nella prefazione alla traduzione italiana. Lo definisce criminale, ma non mostro. Libro istruttivo perché illustra come fossero “quelli dell’altra parte”. Ma più ancora, aggiungerei pensando alle tesi negazioniste, perché conferma la dimensione del crimine di Auschwitz, e ratifica la breve dichiarazione di cinque giorni resa dopo l’arresto: “Personalmente, eseguendo un ordine di Himmler di maggio del 1941, ho organizzato che fossero gassate due milioni di persone tra Giugno-Luglio del 1941 e la fine del 1943”. E dissipa un altro mito, con un’involontaria testimonianza a carico dell’imputato nello storico processo del 1961 a Gerusalemme, quando ne ricorda le “vere convinzioni ... sosteneva fanatico ... la necessità di sterminare incondizionatamente tutti gli ebrei...” senza esitazioni o compromessi. Altro che mero esecutore degli ordini del Führer. Programma fallito, ma il veleno di quelle teorie non è stato eliminato. Questo continua a rendere attuale, che lo si combatta, non “soltanto col silenzio dei torturati”, ma per il “patto... fra uomini liberi... decisi a riscattare la vergogna... del mondo”.
Episodi di antisemitismo hanno luogo quotidianamente, alcuni gravissimi, altri meno. Tutti ugualmente da denunciare. Poco importante se espliciti o subliminali. Ieri, in una vignetta caricaturale su Il Fatto quotidiano, Zelensky con un naso adunco. La comunità ebraica e altri hanno protestato. Non certo, immagino, nessuno di quelli che tra due settimane andranno a Predappio.
Vauro, autore della vignetta, ha tacciato di cretino e imbecille chi se ne è scandalizzato. Accusa simile, quella del duce il 18 settembre, “povero deficiente, da disprezzare o averne pietà chi credesse che le leggi erano imitazione di altri”. Mi iscrivo di buon grado tra i cretini, imbecilli e deficienti. Intendiamoci, non critico Vauro per la sua posizione sulla guerra. Gradevole il testo della vignetta. Condivido con lui la condanna al culto per Stepan Bandera, la cui legittimità è stata rivendicata da un giornalista ucraino, Vladimir Maistrouk, con una peregrina rivalutazione della svastica come neutro simbolo pagano e un improbabile paragone a Giulio Cesare. Di moda, in Ucraina, ricorrere alla storia universale come captatio benevolentiae. Ogni tanto qualche scivolone è inevitabile. Può succedere che episodi o persone abbiano letture diverse. Felipe II va bene in Olanda, ma averlo ricordato non va poi così bene a chi ne ammira la statua nella Plaza Mayor di Madrid. Guernica?, un momento!, ci sono bombardamenti buoni e cattivi, ha detto qualcuno. E in Italia i nostalgici del ventennio hanno glissato sul contributo a quel bombardamento dell’Aviazione Legionaria italiana. Brecht sosteneva che un popolo non dovrebbe avere bisogno di eroi. Oscena idiozia, scrisse qualcuno 25 anni fa. Riconosco di essere anche idiota, ma riconosco anche a Maistrouk il diritto di sostenere che ogni popolo decide chi siano i propri. Se però questi sono il collaborazionista Bandera e il massacratore di ebrei Chmelnicki, e tra gli eroi moderni il battaglione Azov, sarà pur legittimo pensare che chi li erge a modello non ha superato le pulsioni filonaziste e antiebraiche.
Ma la vignetta è altro. Immagino Zelensky a Piazza Navona. Un caricaturista forse ne noterebbe il naso “importante”, come dice Vauro, anche se, essendo primavera, se per il tiepido sole primaverile Zelensky fosse in maglietta, è più facile immaginare una caricatura che ne metta in risalto i bicipiti, e non proprio il naso. Ma se proprio il naso deve essere, a giudicare dalle poche foto che lo ritraggono di profilo, importante forse, ma non adunco. E se, con la stessa pazienza con cui un professore di Vienna volle misurare la testa dei suoi studenti, scoprendo che il più ariano era il mischling Bruno Touschek, se ne misurasse la curvatura, non pare trasparirebbero quei tratti somatici cari a Difesa della Razza o Der Stuermer e che in libri per ragazzi erano addirittura associati al numero 6.
Vauro è sensibile al razzismo. Ricordo, e mi associo, la sua opposizione al censimento dei rom. Come gli sarà venuto in mente di sottolineare nella caricatura proprio il naso? E in quella forma? Come, non si è sovvenuto di quanto era accaduto quando una sua caricatura ebbe per tema una quindicina di anni fa Fiamma Nirenstein? Dubbio che mi fa sentire meno cretino e imbecille. Quanto al deficiente, sono in buona compagnia pensando che una certa influenza quella visita del maggio del 1938 la ebbe.
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