di FRANCESCA FROIO
Oggetto odierno della rubrica Salute e Benessere è “La trombofilia”. Trattasi essenzialmente di un'anomalia della coagulazione del sangue che aumenta il rischio di trombosi.
Ne abbiamo parlato con un’esperta, la dottoressa Rita Carlotta Santoro,Unità” Operativa Emostasi e Trombosi
Centro di Riferimento Regionale per le Malattie Emorragiche e Trombotiche, Azienda Ospedaliera Pugliese-Ciacciò di Catanzaro.
Ringraziamo la professionista per aver risposto con chiarezza e professionalità alle domande che le abbiamo posto e condividiamo con tutti i nostri lettori questa interessante intervista, che riteniamo possa essere davvero utile a molti.
Che cos’è la Trombofilia? Come si diagnostica? Come deve comportarsi una futura mamma trombofilica? Tutto questo e molto altro ancora nel servizio realizzato grazie alla dottoressa Rita Carlotta Santoro.
Che cos’è la Trombofilia?
Il termine Trombofilia significa predisposizione allo sviluppo di trombosi. La trombofilia è quindi un’anomalia della coagulazione del sangue che può determinare una ipercoagulabilità, cioè un’aumentata tendenza del sangue a coagulare e di conseguenza un aumentato rischio di trombosi, soprattutto in presenza di condizioni contingenti.
Quali sono i tipi di trombofilia?
Diciamo che possiamo differenziare la trombofilia in due grandi famiglie. Si definisce trombofilia ereditaria un’anomalia ereditaria della coagulazione, determinata geneticamente, che di per sé o più facilmente in presenza di altri fattori di rischio, si associa a trombosi.
Si definisce trombofilia acquisita la presenza di anomalie acquisite della coagulazione , che non sono determinate geneticamente, ma che vengono acquisite nel corso della vita del paziente e che possono predisporre al rischio di trombosi.
Il paziente trombofilico ha generalmente dei sintomi?
Il soggetto portatore di trombofilia che non ha mai presentato episodi trombotici è asintomatico.
Quando si presenta la trombosi, questa si manifesta con sintomi differenti a seconda se interessa una vena o un’arteria; le forme più frequenti di trombofilia (fattore V Leiden e protrombina variante) causano soprattutto trombosi venosa, ed in particolare trombosi venosa profonda localizzata ad una gamba, che si può manifestare con edema, dolore, aumento di temperatura e arrossamento della gamba, ma può anche non dare manifestazioni cliniche.
La complicanza più temibile della trombosi venosa è l’embolia polmonare, dovuta allo spostamento del trombo a livello dei polmoni; in tal caso si può avere difficoltà respiratoria ed altre manifestazioni gravi fino al decesso.
Nel caso di una trombosi arteriosa, i vasi principalmente interessati sono le coronarie e le arterie cerebrali in cui la trombosi può determinare infarto o ictus.
La presenza di trombofilia può associarsi inoltre ad eventi avversi della gravidanza, quali aborti ripetuti, ritardo della crescita fetale o morte intrauterina del feto, tutti episodi considerati secondari alla deposizione di materiale trombotico nella placenta.
Come si diagnostica la trombofilia? Quali esami bisogna fare?
La trombofilia viene diagnosticata effettuando alcuni esami specifici dopo un semplice prelievo di sangue periferico. Oltre all’emocromo e ai test di base della coagulazione, cioè aPTT (Tempo di tromboplastina attivato), PT (Tempo di Protrombina) e dosaggio del Fibrinogeno, va effettuata la ricerca degli inibitori fisiologici della coagulazione, cioè Antitrombina, Proteina C e Proteina S, poi va valutata la resistenza alla proteina C attivata, vanno ricercate le mutazioni genetiche ad oggi riconosciute come sicuramente associate ad un rischio trombotico, cioè la Mutazione del Fattore V Leiden e la Mutazione G20210A della Protrombina, va fatto lo screening per la ricerca del lupus anticoagulant , degli anticorpi antifosfolipidi e degli anticorpi anti β2GP1 ed infine va fatto il dosaggio dell’omocisteina.
In molti laboratori sono disponibili pannelli con numerose mutazioni genetiche per le quali non v’è evidenza scientifica di rilevanza sul piano clinico e pertanto non utili ai fini di una diagnosi.
Quando è il caso di eseguire queste indagini?
I soggetti da sottoporre a screening trombofilico sono i seguenti: Soggetti con comparsa di trombosi in età giovanile (< 50 anni), soggetti con tromboembolismo venoso idiopatico (ovvero senza causa nota), soggetti con tromboembolismo venoso ricorrente, soggetti con trombosi venose superficiali recidivanti, trombosi in sedi insolite, soggetti asintomatici con familiarità positiva per eventi tromboembolici ricorrenti, familiari di primo grado di soggetti portatori di trombofilia ereditaria, soggetti con necrosi cutanea indotta da anticoagulanti orali, neonati con porpora fulminante neonatale.
Per quanto riguarda le donne in gravidanza, lo screening andrebbe eseguito quando si pianifica una gravidanza, e non quando questa è già iniziata, proprio perché le variazioni della coagulazione associate a questo stato tendono a falsarne i risultati. In ogni caso, lo screening è indicato solo per alcune categorie di donne :
- Donne che abbiano già avuto trombosi venosa, o con parenti stretti che ne abbiano sofferto (storia familiare);
- Donne che abbiano una storia familiare per trombofilia ereditaria;
-Donne con aborti ricorrenti (molto consigliata è in particolare la ricerca degli anticorpi antifosfolipidi) o che abbiano avuto una morte fetale in utero in una precedente gravidanza;
-Donne che, in una gravidanza precedente, abbiano avuto episodi di preeclampsia o di sindrome HELLP (una particolare forma di preeclampsia), ritardo della crescita fetale o distacco di placenta.
Il paziente trombofilico deve seguire sempre una terapia o sottoporsi ad esami ricorrenti?
Il paziente asintomatico che ha già avuto una diagnosi di trombofilia non ha in genere necessità di sottoporsi ad esami, a meno che non debba essere monitorata una eventuale trombofilia acquisita (es. positività per anticorpi anticardiolipina /lupus anticoagulant) o non debba controllare i valori di omocisteina. Se asintomatico non ha inoltre necessità di praticare terapia tranne nell’eventualità di un incremento del rischio trombotico, come dopo un intervento chirurgico, un’immobilizzazione prolungata,nel puerperio ecc…., periodi in cui dovrà essere effettuata un’adeguata profilassi antitrombotica.
Chiaramente dovrà tenere sotto controllo eventuali altre patologie che possono causare ipercoagulabilità, come il diabete e le patologie cardiache e vascolari.
Nel caso il paziente abbia invece già avuto episodi trombotici dovrà effettuare una terapia anticoagulante. La durata dell’anticoagulazione dipenderà dal tipo di trombosi, se c’è stato un singolo episodio o gli episodi sono stati multipli , se la trombosi è stata idiopatica (cioè se si è presentata in mancanza di fattori scatenanti) o viceversa se è stata secondaria ad altre cause.
In gravidanza generalmente aumenta il rischio di trombosi, perché il sangue tende a coagulare di più. Come deve comportarsi una futura mamma trombofilica?
In gravidanza l’organismo si prepara al parto cercando di ridurre il rischio di emorragia. Per tale motivo aumentano i livelli di proteine pro-coagulanti (quali il Fibrinogeno e il FVIII) e di concerto si riducono gli inibitori naturali della coagulazione (ad esempio la Proteina S). Questo determina di fatto uno sbilanciamento del sistema emostatico in senso pro-trombotico. Nelle donne trombofiliche questo sbilanciamento può essere più marcato, potendo aumentare il rischio trombotico sistemico, ma anche il rischio di eventi avversi gravidici, legati alla possibilità di trombosi della placenta, l’organo attraverso il quale la mamma nutre e ossigena il feto. Se si formano coaguli a livello placentare il sangue non riesce a circolare bene e si possono avere conseguenze per il bambino, che non cresce più in modo ottimale, e per la mamma stessa, visto che anomalie della placenta sono legate per esempio al rischio di preeclampsia.
I sintomi possibili di trombosi placentare sono dunque la preeclampsia (che si manifesta con aumento della pressione materna e aumento delle proteine nelle urine), il ritardo di crescita fetale, l’aborto e il parto pretermine, il distacco placentare e la morte endouterina fetale.
Una mamma trombofilica, nel caso di gravidanza, dovrà quindi recarsi dal ginecologo o dall’ematologo di fiducia. Lo specialista valuterà in base al tipo di trombofilia, alla storia clinica e ostetrica della paziente e dei familiari, se sia il caso di iniziare una profilassi antitrombotica.
Tale valutazione andrà estesa anche al puerperio, periodo in cui il rischio trombotico è ancora più elevato.
Trombofilia congenita e terapie ormonali, è possibile?
E’ noto che la terapia ormonale, sia essa utilizzata come terapia contraccettiva, che come terapia sostitutiva in donne in menopausa, che usata nelle donne affette da Carcinoma della mammella con recettori positivi, comporta un aumento del rischio trombotico. L’eventuale associazione in una donna portatrice di trombofilia aumenta ulteriormente questo rischio. Questo non significa che la trombofilia sia di per sé una controindicazione assoluta all’utilizzo della terapia ormonale. La prescrizione di una terapia non può prescindere da una attenta valutazione del rapporto rischio/beneficio; il farmaco sarà prescritto se i benefici superano i rischi e viceversa.
In una donna trombofilica candidata alla terapia ormonale bisognerà pertanto mettere sul piatto della bilancia la storia clinica della paziente, il tipo di alterazione trombofilica di cui è portatrice, il motivo per il quale è necessario praticare la terapia ormonale, la possibilità di terapie alternative. Nel caso non si possa prescindere dalla terapia ormonale bisognerà scegliere, tra tutte quelle disponibili, quella che nella paziente potrà avere un minore rischio.
I farmaci possono aiutare ma non risolvono tutto, quali strategie preventive si possono attuare per ridurre il rischio trombofilico?
L’immobilizzazione a anche solo l’ipomobilità, ad esempio voli aerei a lunga percorrenza, sono alcuni dei fattori di rischio per la trombosi. In questi casi è fondamentale indossare abiti comodi, non aderenti. E’ fondamentale alzarsi e camminare ogni 2-3 ore. Se l’immobilità è legata a un intervento chirurgico oppure ad una malattia, è importante riprendere a muoversi appena possibile.
Altri fattori di rischio possono essere l’età, la sedentarietà, il fumo di sigaretta, l’obesità, la presenza di vene varicose, l’uso di terapia ormonale, la presenza di malattie croniche (quali cardiopatie, tumori, malattie polmonari, patologie intestinali come il morbo di Crohn o la rettocolite ulcerosa) e infine la gravidanza e il puerperio.
Il rischio può quindi essere parzialmente prevenuto adottando uno stile di vita il più possibile sano, con una vita attiva, un peso corporeo quanto più prossimo a quello ideale, astensione dal fumo e utilizzo di una profilassi antitrombotica in alcune situazioni di rischio trombotico aumentato.
Si è discusso molto riguardo alla relazione tra COVID-19 e trombosi. Esistono delle accortezze particolari che i soggetti trombofilici devono adottare maggiormente in questo momento?
In molte patologie di pertinenza internistica il decorso può essere complicato dall’insorgenza di tromboembolismo venoso (trombosi venosa profonda e/o embolia polmonare) e nelle sepsi associate a patologie infettive la coagulazione intravascolare disseminata è una complicanza ben nota.
Il COVID-19 può predisporre alla malattia tromboembolica sia venosa che arteriosa, a causa dell'attivazione della coagulazione causata da una combinazione di infiammazione eccessiva, attivazione piastrinica, disfunzione endoteliale e stasi del flusso sanguigno a causa dell'immobilità. Quanto il rischio trombotico possa essere aumentato nei pazienti affetti da COVID-19 e portatori di un’anomalia trombofilica non è noto. Al momento la gran parte degli studi pubblicati riguardano pazienti cinesi che hanno una minore prevalenza di alterazioni trombofiliche rispetto ai pazienti di etnia caucasica.
E’ stato dimostrato che i pazienti deceduti per COVID-19 avevano al momento del ricovero in ospedale valori molto elevati di D-Dimero e prolungamento del Tempo di Protrombina; le anomalie emostatiche sono quindi importanti come indicazione della gravità della malattia. Aderendo alla indicazione AIFA per i pazienti COVID-19 “Le eparine a basso peso molecolare sono indicate a dosaggio cosiddetto di profilassi nella fase di polmonite (e allettamento). In fasi avanzate di malattia o in presenza di trombosi possono essere utilizzate dosi più elevate, cosiddette terapeutiche”
Per questo motivo qualche giorno fa L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha autorizzato l’avvio di uno studio multicentrico, che prevede l’impiego di enoxaparina, nel trattamento dei pazienti affetti da COVID-19 con quadro clinico moderato o severo. La sperimentazione valuterà la sicurezza e l’efficacia dell’anticoagulante, somministrato a diversi dosaggi, nel migliorare il decorso della malattia.
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