di RITA TULELLI
In un mondo dove si parla sempre di più di inclusione, accettazione e rispetto, esiste ancora una realtà che colpisce in silenzio, ferisce ogni giorno e, troppo spesso, viene ignorata o minimizzata: il bullismo legato alla diversità. Non è solo una questione di insulti o prese in giro: è un problema culturale, emotivo, sociale. Esistono molte forme di bullismo, ma ce ne sono alcune che fanno più male perché toccano l’identità profonda delle persone, il modo in cui si percepiscono o sono percepite. Il bullismo omofobico, ad esempio, è ancora oggi una delle forme più diffuse e devastanti.
Non colpisce solo chi fa parte della comunità LGBTQ+, ma anche chi non si conforma a certi comportamenti, a certi modi di vestire, a certi ruoli. Essere chiamati “frocio”, “lesbica”, “checca” non è solo un’offesa: è un attacco alla libertà di essere se stessi. Molti ragazzi e ragazze finiscono per nascondere la propria identità, per fingere di essere qualcun altro, per paura di essere giudicati, esclusi, picchiati, umiliati. Questo crea un malessere silenzioso, che spesso si trasforma in depressione, isolamento, attacchi d’ansia o pensieri molto più gravi. Lo stesso vale per chi ha un aspetto fisico che non rientra nei “canoni” considerati accettabili. Il bullismo legato al corpo è spesso invisibile agli adulti ma quotidiano tra i giovani. “Sei troppo grasso”, “sei un racchio”, “sembri un’anoressica”, “sei brutto”, “hai le orecchie a sventola”, “porti gli occhiali spessi come fondi di bottiglia”, “sei basso”, “sei troppo pelosa”: queste frasi, ripetute con leggerezza o con cattiveria, lasciano cicatrici che non si vedono ma che fanno male tanto quanto un pugno. Chi subisce questo tipo di bullismo inizia a odiare il proprio corpo, a vergognarsi, a evitare specchi, foto, sguardi. E poi c’è un’altra ferita ancora più invisibile: il bullismo contro chi ha una disabilità. Chi cammina in modo diverso, chi ha un modo particolare di parlare, chi ha una condizione neurologica o motoria viene spesso escluso, preso in giro, compatito o addirittura ignorato, come se non esistesse. Questo tipo di bullismo è crudele perché toglie dignità, annulla la persona e la riduce alla sua difficoltà. Ma tutti abbiamo fragilità, e imparare a convivere con esse dovrebbe essere motivo di rispetto, non di derisione. Infine, un altro tipo di violenza che continua a colpire nel silenzio è quella legata alla diversità culturale.
Anche qui, il bullismo razzista è spesso camuffato da battute, ma ha radici profonde: “Torna al tuo paese”, “Parli male l’italiano”, “Puzzi”, “Non sei dei nostri”. Pochi lo dicono ad alta voce, ma tanti lo pensano. E questo crea un clima in cui un ragazzo di origine straniera, anche se nato e cresciuto in Italia, si sentirà sempre fuori posto, come se dovesse continuamente dimostrare di valere. Questo tipo di odio nasce dalla paura del diverso, ma anche dall’ignoranza: se non conosci qualcosa, se nessuno ti ha insegnato il valore delle differenze, rischi di trattarlo come una minaccia. E invece proprio da queste differenze nasce la vera ricchezza di una società. La cosa più assurda è che chi bullizza spesso non si rende nemmeno conto della gravità di quello che fa. Per alcuni è uno scherzo, un modo per sentirsi più forti, per fare ridere gli altri. Ma chi subisce non ride. Chi subisce si chiude, si spegne, si convince di non valere. E quando questo accade a scuola, nei corridoi, in palestra, online o perfino tra “amici”, il dolore diventa ancora più difficile da affrontare. Ecco perché serve ancora parlarne. Non è un tema vecchio, non è qualcosa che riguarda “gli altri”. È una realtà che può toccare chiunque. E non basta non essere bulli per sentirsi a posto: bisogna essere attivi, prendere posizione, rompere il silenzio. Se vedi una persona che viene presa in giro, aiutala. Se sei amico di un bullo, parlaci. Se ti senti solo, parla. Se sei diverso e tutti lo siamo, in fondo non vergognarti. Il cambiamento parte da chi ha il coraggio di non voltarsi dall’altra parte. Perché la differenza tra un gruppo che fa male e una comunità che protegge sta tutta nella scelta di chi guarda: restare zitto o dire basta. E oggi, più che mai, serve che qualcuno dica basta.
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