di RITA TULELLI
«Non era un raptus». Quante volte leggiamo queste parole dopo l’ennesima tragedia? Dietro ogni femminicidio non c’è mai un gesto improvviso, ma una catena di segnali ignorati, di silenzi taciuti, di richieste di aiuto che non hanno trovato ascolto. Ogni donna uccisa per mano di chi diceva di amarla porta con sé una storia di controllo, paura e isolamento, e ci ricorda che il femminicidio non è solo cronaca nera, ma una ferita profonda nella nostra società. Gli esperti criminologi sottolineano che l’omicidio di una donna per motivi di genere nasce quasi sempre all’interno di relazioni intime o familiari. Il partner, o l’ex partner, è spesso l’aggressore. In queste dinamiche si riconoscono schemi ricorrenti: la violenza che procede a ondate, tra scuse e nuove aggressioni; la gelosia che si trasforma in controllo ossessivo, fatto di restrizioni, divieti e sorveglianza digitale; la lenta escalation che parte da insulti verbali, passa alle percosse e si conclude nel gesto estremo. Non è dunque la follia di un attimo, ma un percorso di annientamento che priva la donna della sua libertà, della sua autostima e della sua rete di sostegno.
Contrastare il femminicidio significa andare oltre la risposta emergenziale e lavorare su più fronti. La prevenzione culturale è il primo passo: bisogna educare fin da piccoli al rispetto e all’uguaglianza, smantellando gli stereotipi che alimentano la disparità tra i sessi. Accanto a questo, servono strumenti giuridici efficaci, come l’allontanamento immediato dell’aggressore e l’uso del braccialetto elettronico, capaci di proteggere concretamente le vittime. Ma le leggi, da sole, non bastano. Sono fondamentali le reti di supporto: centri antiviolenza, case rifugio, sportelli di ascolto, luoghi in cui le donne possano trovare sicurezza e la forza di ricominciare. Anche chi lavora in prima linea forze dell’ordine, magistrati, sanitari deve essere formato per riconoscere i segnali di rischio e agire senza sottovalutare la gravità delle denunce. La società nel suo complesso ha un ruolo cruciale. Il linguaggio con cui i media raccontano questi crimini può rafforzare o smantellare la cultura che li alimenta.
Parlare di “delitto passionale” o “tragedia familiare” riduce la portata del problema e deresponsabilizza l’aggressore. Nominare il femminicidio per quello che è, invece, significa riconoscere che si tratta di un crimine radicato in rapporti di potere diseguali e in una mentalità patriarcale che deve essere scardinata. Ogni femminicidio è un dramma che riguarda tutti. Non è una questione privata, ma un problema collettivo che richiede consapevolezza, responsabilità e azione. Solo intrecciando prevenzione culturale, protezione giuridica e sostegno sociale sarà possibile spezzare il ciclo della violenza e costruire un futuro in cui l’amore non sia mai confuso con il possesso, ma sia davvero sinonimo di libertà e rispetto.
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