Tulelli: “Femminicidio: non è amore, è potere. E ora la legge lo dice chiaramente”

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images Tulelli: “Femminicidio: non è amore, è potere. E ora la legge lo dice chiaramente”
Rita Tulelli
  24 luglio 2025 10:26

di RITA TULELLI

 Il 23 luglio 2025 è una data che segnerà una svolta nella storia del nostro Paese. Il Senato ha approvato all’unanimità un disegno di legge che introduce il femminicidio come reato autonomo nel codice penale italiano. È un passaggio fondamentale, simbolico e concreto al tempo stesso: da oggi, uccidere una donna in quanto tale, per odio, dominio, gelosia, controllo o per vendetta affettiva, non sarà più un crimine annegato tra le righe degli articoli sull’omicidio. Sarà riconosciuto per quello che è: un atto di violenza sistemica, di sopraffazione, di barbarie culturale. Mi colpisce, però, che per arrivare a questo punto sia servito l’ennesimo lutto, l’ennesimo volto giovane da stampare su una maglietta, da piangere nei cortei. Perché dietro ogni legge ci sono nomi, storie, urla.

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C’è Giulia Cecchettin, morta per aver detto “no” all’amore malato di un ex compagno. C’è il volto stanco delle madri che hanno perso una figlia e ora crescono nipoti rimasti orfani due volte: senza una madre, e con un padre assassino. C’è la voce rotta di chi ha denunciato e non è stata creduta. C’è il silenzio delle istituzioni che troppo a lungo hanno parlato solo dopo la tragedia. Eppure, questa legge ha un significato che va oltre il codice penale. È il segno che finalmente qualcosa si muove. Che iniziamo, forse, a guardare in faccia il problema. A chiamarlo per nome. A dire con chiarezza che non si tratta solo di casi isolati, ma di un fenomeno culturale e sociale radicato. Il femminicidio è l’ultimo stadio di un’escalation di controllo, possesso, annientamento. È un atto che nasce molto prima del coltello o della pistola. Nasce negli sguardi che giudicano, nelle parole che umiliano, nella cultura che giustifica.

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E cresce nell’indifferenza. L’ergastolo, la possibilità di intercettazioni più estese, i fondi per gli orfani sono strumenti importanti. Ma non basteranno se non cambiamo il modo in cui educhiamo i nostri figli. Se non iniziamo a insegnare che amare non significa possedere, che il rifiuto non è un affronto, che il corpo e la libertà dell’altra persona non sono terreno di conquista. Ogni volta che leggiamo “l’ha uccisa perché non accettava la fine della relazione”, dovremmo fermarci. E riflettere su quanto sia malata una società che ancora usa queste parole senza provare vergogna. 

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Non possiamo più limitarci alla retorica. Ogni donna uccisa è un fallimento collettivo. Lo è per lo Stato, per la giustizia, per la scuola, per la cultura. Lo è anche per chi tace. Questa legge non ci solleva da queste responsabilità, ma ce le restituisce con più forza. Oggi sento un’emozione strana: è un misto di rabbia e speranza. Rabbia per tutto ciò che è stato taciuto, ignorato, minimizzato. E speranza che questo sia l’inizio di un cambiamento autentico, fatto non solo di leggi, ma di consapevolezza. Il femminicidio non è un problema delle donne. È un problema di tutti. Ed è ora che tutti lo affrontiamo, senza più voltare lo sguardo. Perché una donna che muore per mano di chi diceva di amarla ci riguarda. Sempre. E per ognuna di loro, abbiamo il dovere di cambiare.

 

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