di RITA TULELLI
Aveva solo 15 anni Paolo Mendico di Latina. Amava i suoi capelli biondi e lunghi, un dettaglio di sé che avrebbe dovuto essere motivo di libertà e identità, non di scherno. Invece, per lui era diventato un bersaglio. Dopo anni di prese in giro, aggressioni, soprannomi crudeli, Paolo si è tolto la vita pochi giorni fa. La sua morte ha lasciato i genitori, Giuseppe e Simonetta, distrutti e con una domanda che pesa come un macigno: “Perché nessuno ha fermato tutto questo?”. La madre racconta un calvario iniziato alle elementari con aggressioni e umiliazioni, continuato alle medie con episodi di bullismo anche da parte degli adulti, fino agli insulti all’Istituto informatico Pacinotti. «Quante volte l’ho visto piangere» ha confidato. "Abbiamo sempre denunciato tutto alla scuola, ma siamo rimasti inascoltati".
Questa storia non è solo la tragedia di Paolo, è lo specchio di una realtà più ampia: quella di migliaia di ragazzi e ragazze che subiscono umiliazioni quotidiane nell’indifferenza o nel silenzio delle istituzioni. Il bullismo non è un gioco crudele che si esaurisce da solo. È una violenza sistematica che colpisce l’autostima, isola e può spingere a gesti estremi. Gli insulti legati all’aspetto, al genere, alla diversità, non sono “scherzi” innocui: sono armi che lasciano cicatrici invisibili. Paolo è diventato simbolo di questo dolore silenzioso. La scuola è il primo luogo in cui un ragazzo dovrebbe sentirsi al sicuro.
È qui che si imparano non solo matematica e storia, ma anche rispetto ed empatia. Quando genitori e studenti denunciano episodi di bullismo, l’istituzione ha il dovere di ascoltare, indagare, intervenire. Non bastano circolari o progetti sulla carta: servono protocolli concreti, formazione del personale, sportelli di ascolto, programmi di prevenzione e sensibilizzazione. Il caso di Paolo così come altri che hanno scosso l’opinione pubblica ci ricorda che ogni segnalazione ignorata può avere conseguenze irreparabili. Proteggere gli studenti non è un atto di “buona volontà”, è un obbligo morale e giuridico. Raccontare la storia di Paolo significa non dimenticarla e non ridurla a un titolo di cronaca.
Significa chiedere una scuola che non chiuda gli occhi, una comunità che non volti le spalle, coetanei che non restino spettatori passivi. Il bullismo non finirà con un decreto, ma può essere contrastato da adulti attenti, regole chiare e ragazzi educati all’empatia. Solo così il ricordo di Paolo potrà diventare un monito e un punto di partenza per cambiare davvero. Perché nessun altro adolescente debba sentirsi solo fino a spegnersi.
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