Tulelli: "Vittimologia: dalla colpa della vittima alla sua tutela"

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Rita Tulelli
  25 agosto 2025 18:33

di RITA TULELLI

 Per molto tempo la figura della vittima è rimasta in secondo piano. Non era vista come un soggetto da proteggere, ma quasi come un dettaglio “di contorno” rispetto al reato. In alcuni casi, addirittura, veniva accusata di aver contribuito a ciò che le era successo. È il cosiddetto victim blaming, un atteggiamento purtroppo molto diffuso in passato, soprattutto in certi contesti culturali e giuridici. Basti pensare agli stereotipi che per decenni hanno accompagnato i reati sessuali o la violenza domestica. Si giudicavano gli abiti, i comportamenti o lo stile di vita delle donne che denunciavano uno stupro. Si insinuava che, in una relazione violenta, la vittima potesse “aver provocato” l’aggressore o “accettato” la sua condizione. In questo modo la sofferenza di chi subiva il crimine non solo veniva ignorata, ma addirittura trasformata in un sospetto. Il risultato era che molte persone preferivano tacere, rinunciando a denunciare per paura di essere nuovamente giudicate. A partire dagli anni Settanta, però, qualcosa è cambiato.

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La criminologia ha iniziato a guardare alla vittima non più come a un soggetto passivo o, peggio, corresponsabile, ma come a una persona vulnerabile che ha bisogno di ascolto, sostegno e protezione. I movimenti femministi hanno avuto un ruolo fondamentale in questa svolta, denunciando la violenza di genere e promuovendo la nascita dei primi centri antiviolenza. Allo stesso tempo, anche le leggi si sono adattate, introducendo strumenti di tutela sempre più concreti. Un esempio è la Convenzione di Istanbul del 2011, che ha segnato una tappa decisiva nel riconoscimento dei diritti delle vittime di violenza. Oggi la vittimologia si concentra su chi subisce il crimine e sulle sue necessità reali. Non si tratta solo di garantire giustizia nei tribunali, ma anche di offrire supporto psicologico, assistenza economica, protezione fisica e strumenti che permettano di ricostruire la propria vita.

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L’attenzione è particolarmente alta verso i soggetti più fragili, come minori, donne, persone con disabilità o migranti. Sempre più spesso si parla anche di giustizia riparativa, un approccio che punta a riconoscere il danno subito e a restituire dignità, anziché limitarsi a punire l’autore del reato.Il percorso non è stato breve né privo di contraddizioni, ma oggi possiamo dire che la prospettiva è radicalmente cambiata. Se prima si cercava di capire “quanto” la vittima fosse responsabile del crimine, ora la domanda è un’altra: in che modo la società e le istituzioni possono proteggerla e accompagnarla nel difficile cammino dopo la violenza?

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