Turandot inaugura il Festival d'Autunno: la recensione di Marco Calabrese

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  07 ottobre 2024 19:31

di MARCO CALABRESE

Sabato sera al Politeama di Catanzaro è stata messa in scena l'ultima opera del maestro Puccini, Turandot, che ha inaugurato il XXI Festival d’Autunno, di cui è ideatrice e direttore artistico Antonietta Santacroce, che in questo primo weekend ha scelto di omaggiare Giacomo Puccini, di cui quest’anno ricorre il centenario della morte.
Turandot si propone in questa edizione del Festival, non come evento isolato ma come ultimo appuntamento di altri già calendarizzati nei giorni precedenti, che hanno aiutato e guidato il pubblico in un percorso propedeutico e di comprensione di quelle connessioni culturali e sociali, su cui talvolta non ci si sofferma. Non è un caso che l’edizione 2024 del Festival abbia come sottotitolo “Connessioni”.
Si è iniziato giovedì 3 ottobre con la “Turandot e l’ombra di un sorriso” guida all’ascolto dell’opera curata dal sottoscritto nei Saloni di Palazzo de Nobili; venerdì 4 ottobre è stata la serata del “Galà Lirico - Omaggio a Puccini” nello splendido Oratorio del Carmine (Giorgia Teodoro, soprano; Alessandro D’Acrissa, tenore; Giuseppe Arnaboldi, violino; Sabina Fedele, viola; Giovanni Mazzuca, pianoforte). Sabato 5 ottobre è stata la volta della conferenza “I Pekin e la via della seta; dalla Cina a Catanzaro” a cura di Oreste Pirrò.

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Nel pomeriggio l’esecuzione di un’opera in prima assoluta commissionata dal Festival “My Journey To Beijing - Storia d’amore Tra Marco Polo e Hao Dong con musiche composte e suonate al piano da Alessandro Meacci, con la voce di Erica Salbego. Turandot si ambienta “a Pechino ai tempi delle fiabe” in una Cina magica e misteriosa in cui, tra gli spettri del passato e gli audaci enigmi dell’algida principessa, è sempre presente la carezza dalle morbide sete. E la seta a Catanzaro era un’attività fiorente. Questo il fil rouge, come ha sottolineato più volte Antonietta Santacroce, che ha caratterizzato gli eventi soprattutto di sabato 5. Dalla meticolosa ed elegante ricerca, con una ricca documentazione fotografica, di Oreste Sergi, si è passato nel pomeriggio all’ascolto di quella storia d’amore composta da Alessandro Meacci che trova similitudini somiglianze e strette connessioni con altre più celebri… Romeo e Giulietta, Dante e Beatrice.
Infine in serata la tanto desiderata Turandot. E di questa si vuole parlare.

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Rappresentare Turandot oggi richiede scenicamente uno sforzo, non solo economico, molto impegnativo. La Cina imperiale infatti, anche sulla base delle indicazioni presenti nelle edizioni musicali e nel libretto « gran loggiato tutto scolpito e intagliato a mostri, a liocorni, a fenici, coi pilastri sorretti dal dorso di massicce tartarughe » fa uso eccessivo di tutte quelle ricche e dorate decorazioni, e delle lucide e specchianti lacche. La scelta del bravo regista, Salvo Dolce, si è spostata invece su una pulizia totale dell’apparato scenografico. In questa visione, solo praticabili rettangolari e quadrati hanno definito le mura e le piazze di Pechino. E di questa scelta siamo completamente d’accordo: piuttosto che scenografie approssimative, povere e magari imbarazzanti, meglio un minimalismo semplice e coerente. L’elemento che ha riempito la scena è stata la presenza del Coro Lirico Siciliano, molto ben preparato dal maestro Francesco Costa, che è diventato pura scenografia coreografata. Vestiti di nero con viso sbiancato ed occhi marcati e con la testa rasata, gli artisti del coro si muovevano come un’onda assecondando e sottolineando le dinamiche musicali, con movimenti delle braccia che occhieggiavano al celebre Bob Wilson.
Anche ogni personaggio del cast, sulla base di queste indicazioni registiche, con semplice efficacia caratterizzava la propria indole: Calaf, fremente di passione per Turandot, era quello che più di tutti percorreva lo spazio scenico in più direzioni quasi a voler simboleggiare il suo nervoso proposito; Turandot, statica e fredda nella proclamazione dei suoi enigmi, con calibrati movimenti delle mani, cadrà in ginocchio solo quando verrà vinta da Calaf; Timur padre di Liù, affaticato e pesante sotto il peso del suo sofferente esilio; Liù amorosa anima in pena, che come un fuscello di canna di bambù sospinta dal vento, si spostava ora da uno ora dall’altro; Ping Pong e Pang, come lo stesso Puccini scrisse in una lettera, elemento nostrano dal riferimento alle maschere della commedia dell’arte, con movimenti « alla cinese » buffi e comici, ma mai volgari e grossolani.

La buona riuscita del lavoro registico ci fa comprendere che Salvo Dolce ha metabolizzato il libretto (non è cosa da tutti i registi ahimè), arrivando ad una sua chiara e schematica Turandot, di cui non possiamo non fargli i nostri più sinceri complimenti. La scelta del cast vocale ha soddisfatto in pieno il rispetto del ruolo e del timbro.
Il Calaf di Eduardo Sandoval voce potente e squillante, dagli acuti ben proiettati, nella piena tradizione del canto italiano ha entusiasmato la sala, la Turandot di Chrystelle di Marco dalla voce piena, ricca, potente, carica di armonici, ci ha regalato una ottima interpretazione della complessa aria “In questa reggia”. Liù, Leonora Llieva, voce più morbida e calda, commovente nella celebre “Tu che di gel sei cinta”. Timur,  Viacheslav Strelkov, dalla bella, profonda voce brunita e ampia che, al contrario di altri suoi colleghi, non stringe gli acuti ma li offre con generosità. I giovani Ping Pong e Pang, rispettivamente David Costa Garcia, Federico Parisi e Davide Benigno, dalle voci calibrate e bilanciate; il Mandarino, Alberto Munafó Siragusa, con voce ben scandita e sicurezza declamatoria, come richiesto dalla partitura, e il corretto Altoum, Pietro di Paola, completavano la compagnia di canto.

L’Orchestra, diretta da Filippo Arlia, arricchita nell’organico da tutte quelle percussioni che suggerivano un mondo lontano ed esotico, ha fatto un buon lavoro.
Forse alcune scelte nei tempi musicali non erano perfettamente equilibrate, e forse andavano sottolineate alcune dinamiche presenti in partitura, ma il risultato è quello di uno spettacolo appagante, coinvolgente ed emozionante.
L’emozione è stata tangibile quando l’opera, dopo il canto corale che accompagna la morte di Liù, si è fermata e nel silenzio emozionato della sala una voce ha detto “Qui termina la rappresentazione perché, a questo punto, il Maestro è morto”.

L’applauso è partito timoroso, a voler ossequiare il Maestro Puccini, per poi crescere ed amplificarsi quando tutti gli interpreti hanno solcato il proscenio.
Il pubblico, che gremiva il teatro in ogni suo ordine di posti, è stato felice di accogliere uno spettacolo così ben riuscito.
In una città che forse dà un po' troppo spazio alle feste di piazza (sempre e comunque necessarie e sacrosante) la voglia di vivere altre serate così è tantissima. E speriamo di goderne sempre di più in futuro.

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