Umg, il prof Bilotti scrive alle matricole

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Domenico Bilotti
  15 luglio 2022 08:51

di DOMENICO BILOTTI*

 
L'ultima volta in cui, pochissimi giorni addietro, son capitato a Germaneto mi ha fatto enorme simpatia vedere che nelle segreterie c'era qualche studente fresco di diploma che andava a prendere informazioni. Chi con amici o compagni di classe, chi col fidanzato o la fidanzata, chi con la famiglia al gran completo, visto il marcatore del tempo che è tutt'ora l'università. 

Sono un sostenitore franco e aperto dell'orientamento "istituzionale", degli atenei che scelgono di parlare direttamente agli istituti superiori della propria provincia e regione, ma è innegabile che la tenerezza e la spontaneità con cui uno si sceglie da sé ciò che vuol studiare siano ancora motore fondamentale di ogni riuscita. 
Anche quest'anno, come e più di altri, il piano di studi sarà ricco, articolato e composito, con quella che si chiama in gergo "offerta formativa" variegata, molteplice, plurale. Molti dei corsi di laurea tutti, a Catanzaro, hanno avuto punteggi importanti nelle classifiche e nei parametri che li definiscono. Ovviamente, sappiamo che non sono solo i numerini a restituire una qualità. Anzi, con molti tra colleghi e maestri abbiamo da anni maturato perplessità su questo modello di misurazione, eterodiretto, serrato, obbligante.
Non lo abbiamo fatto assecondando pretese ideologiche, anzi lavorando di più, sulla scorta di un dato di esperienza palese. L'unità di misura deve rapportarsi all'oggetto, non il contrario. Nessuno si sognerebbe di comprare il vino rosso a chili, il sale non va al metro, la stanza dove viviamo e studiamo e cresciamo per cinque anni non la fittiamo al litro. Eppure, avere mosso risultati, standard, classifiche, rimerita la fatica che abbiamo fatto con le studentesse e gli studenti: essere gli uni e gli altri parte di un percorso che non si instilla l'eccellenza come imperativo economico, ma come approdo, risultato, orizzonte condiviso. Auspicato e praticabile. 

Una cosa è certa. Dopo due anni e mezzo di pandemia abbiamo una voglia matta di fare università. L'università fisica, l'università del dialogo sostanziale, vero, sul campo. Non per nasconderci i tesori cognitivi che vengono dai progressi digitali, ma perché comunità umana e community telematica sono due ambienti molto diversi. Tocca farli interagire, non sopprimerne uno per fare sbocciare acriticamente l'altro senza leggerne le contraddizioni. 
 
Senza essere nostalgici della ruota e dell'aratro, sentiamo il bisogno della pausa dopo i cinquanta minuti, delle tesi che vengono calorosamente dibattute dal cartaceo alla ricerca del guizzo giusto che rimeriti il candidato, del guardarsi in faccia per darsi un trenta con lode o un invito a tornare la prossima volta. 
Negli ultimi trenta mesi le università telematiche hanno avuto un boom evidente, che ha sin qui messo in luce le loro comodità ma che non può nascondere i limiti di una formazione che scegliesse di colpo di diventare esamificio in wi fi. La telematica è nata con altri scopi e platee rispetto alla università "tradizionale", anzi quest'ultima può forse davvero innovarsi se incrocia parte di quelle platee (lavoratrici e lavoratori, persone la cui pianificazione oraria e giornaliera è più volatile o all'opposto più costrittiva). 
 
E per il vero le ragazze e i ragazzi a caccia di nuove e notizie l'altra settimana lanciano un ulteriore guanto di sfida. Innanzitutto: che l'università non può essere un corpo estraneo nella e alla loro vita. Sono degli eroi, in questo senso, perché siamo immersi in, e sommersi da, un mondo che da alcuni anni ci dice esattamente il contrario. Fai un buon superiore, impara a tenere qualcosa in mano e innanzitutto buttati a lavoro (possibilmente senza star troppo a chiederti cosa ti spetti e cosa no), il resto si vede man mano. 
No: questa università non vuole mai pensarsi ostile alle esigenze reddituali dei ragazzi e a quelle di risparmio delle loro famiglie. È semmai una bugia consapevole (una roba da bari di Caravaggio) contrapporre benessere a impiego, formazione a produzione, cultura a introiti. 
E qui veniamo al secondo punto del nostro ragionamento. Probabilmente l'università non era pronta a ridiventare "questione di classe", si era per decenni dato per assodato che fosse libera, aperta, universale, fruibile, formativa. E ora invece per le categorie sociali più sofferenti sembra essere diventata un rischioso superfluo (è lunga, costa, non ti serve a cominciare a lavorare) e per quelle più prospere l'anticipo di una collocazione civile (magari in territori più ricchi, magari in atenei gestiti o cogestiti da imprese private, che siano energetiche o sul mercato del capitale di rischio). 
Mi son messo a chiacchierare con la pattuglia di giovanissimi che tornava alla fermata del bus. Sentendoli parlare, facendosi aiutare da un po' di colpo d'occhio, ascoltando le domande immediatamente pratiche che mi ponevano, mi sono fatto l'idea che vi fossero ragazzi provenienti da famiglie che debbono guardarsi la mano alla terza settimana del mese e giovanissimi invece di risorse più cospicue (chi già con un proprio mezzo auto, chi a organizzare la vacanza della maturità in lidi non propriamente per tutte le tasche). 
Ho sentito però che non volessero contrapporsi alla vita e nella vita. Non sentissero il dovere di fare scelte lavorative volte a sminuire l'università o, all'opposto, di scartare l'università (pubblica) della città, a caccia delle chimere texane di qualche reality show. 
Credo un fratello maggiore, forse allievo di uno dei nostri corsi, commentava, un po' vanesio e un po' serioso, davanti alla sorella che voleva iscriversi, che ci sono posti dove si studiano certe cose e altri dove si è più bravi in altre. Noi, concludeva, siamo bravi a fare quello che facciamo. 
E ciò che quel ragazzo diceva alla sorella, proiettando sull'università anche una quota di personale affetto familiare, usando il modo indicativo, me lo ingiungo subito invece come un imperativo. Un anno è finito o quasi, e tanti altri inizieranno, ma qui siamo e qui proviamo a fare. Avrete cinque anni a volte precari, inseguendo il bello d'una comitiva o il brutto di perdere un autobus, mancando clamorosamente un esame o facendone benissimo cento, la spesa da fare a casa o una festa, un manuale introvabile o un questionario che proprio non riesci a capirlo... E ricorderete probabilmente con indelebile trasporto, come noi tutti abbiamo fatto, i trampoli delle nostre prime cadute. Una cosa però sia solida: università è comunità umana organizzata alla conoscenza.
 
Dovremo mettere a punto tutto ciò che le passa attraverso, ma siamo, una volta di più, parte della stessa storia.
 
 
*DOCENTE DELL’UMG

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