di VITTORIO PIO
Un detto popolare afferma che non si può parlare di una corda nella casa dell' impiccato, ma la stessa cosa potrebbe valere anche a Catanzaro, applaudendo un Giangurgolo principe di Danimarca che si anima e parla con spiritato accento cosentino. Ed invece no, l'intuizione è magnifica e funzionale rispetto alla maschera che ci rappresenta allegoricamente, che la tradizione narra abbia avuto origine da una persona realmente esistita nella città dei tre colli alle soglie del 1600 e poi migrata verso Reggio Calabria, mantenendo il medesimo senso di sberleffo nei confronti dei dominatori aragonesi e spagnoli.
Quello che invece è certo è che il Giangurgolo di Max Mazzotta, arrivato al Teatro Comunale di Catanzaro per sole due repliche nell'ambito della stagione diretta da Francesco Passafaro, è una figura lucidamente acuminata e dotata di un linguaggio moderno e ben assimilabile anche dalle generazioni più giovani e presenti in platea, interpretata con bravura strabordante da Francesca Gariano, con la complicità ritmica ed interpretativa del resto della compagnia “Libero Teatro”, (Marco Tiesi nei panni di un duttile Zio Pantalone, Antonio Belmonte in quelli di Bruzio e Dottor Pollone, Paolo Mauro è invece Taliano e Spettro, mentre un'efficacissima Graziella Spadafora si alterna nei ruoli di Ofella e Pancrazio), su un testo attualizzato e rivisto dal regista e attore cosentino nelle ormai sue pluriennali rappresentazioni. “Non essendo a noi pervenuta traccia di canovacci e trame classiche-ribadisce Mazzotta- non restavano che due strade da percorrere per riportare sulla scena Giangurgolo ai giorni nostri: scrivere un canovaccio ex-novo, misurandosi con il cambiamento del gusto nel pubblico in cinque secoli di evoluzione del teatro; oppure, immaginare il personaggio immerso in un contesto a lui completamente estraneo, e proprio per questo estremamente stimolante dal punto di vista creativo. E cosa può essere più estraneo alla personalità di Giangurgolo se non la più nobile delle espressioni teatrali, la tragedia?”
Ed ecco quindi che questo oriundo e simpatico Giangurgolo con stola giallorossa, nelle sua debordante cialtroneria si sovrappone ad un Amleto che è ovviamente distante dai rigidi canoni del teatro elisabettiano e del prediletto Shakespeare, ma irresistibile nella parodia dissacrante di uno scenario calabrese molto più realistico della sua presunta vaghezza. Lo spettacolo è costruito con ironia vivace e fa perno sul ritmo serrato del linguaggio, in cui nessuno dei comprimari perde una sola battuta delle gustose battute a sostegno della narrazione e sulla mobile fisicità di questi attori bravi e magnificamente diretti, capaci di cavalcare l'onda del grottesco e del riso sempre liberatorio, accorciando di fatto le distanze fra il palco (molto bene anche per scenografia e costumi) e platea, con l'ausilio anche di calibrati interventi musicali. Resta il talento, la disciplina, la lungimiranza e molto di più, anche perchè, restando nelle citazioni, l'attore altro non è che un atleta del cuore.
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