Vanni Clodomiro e "Le donne nella Resistenza"

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Vanni Clodomiro
  27 aprile 2020 12:12

di VANNI CLODOMIRO

Ci proponiamo di offrire soltanto un breve spunto, perché, della Resistenza, si possa prendere in considerazione anche un aspetto generalmente trascurato dalla grande Storia: l’azione delle donne. Ovviamente, essendo stata la Resistenza un fenomeno prevalentemente centro-settentrionale, facciamo qualche cenno sull’azione delle donne in quell’area geografica. Pochi studi si sono occupati di come le donne abbiano vissuto la Resistenza, e vi abbiano pure preso parte, aprendo le porte delle proprie case a renitenti e partigiani, unendosi ai distaccamenti della montagna, partecipando a scontri e battaglie con le armi in pugno.

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Quindi, il risultato della mancanza di studi sistematici è che il grande sforzo compiuto dalle donne nelle fila della Resistenza risulta scarsamente preso in considerazione dalla ricerca storica. Un peso fondamentale hanno le testimonianze dirette di donne che sono state attive nell’aiuto alle formazioni combattenti: partigiane, staffette ecc. Sarà bene, quindi, concentrare l’attenzione sui momenti più significativi vissuti dalle donne nei lunghi mesi della lotta di Liberazione, e sulle forme e i modi del loro coinvolgimento nel movimento partigiano.

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Questo è un atto doveroso degli storici, per ovviare a quella mancanza di attenzione su buona parte della storia femminile: spesso la donna sconta, anche nella documentazione, la subalternità al maschio.

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L’8 settembre 1943 è la data simbolo, in cui la guerra arriva nelle case, irrompendo nelle vite delle donne con prepotenza. Esse sembrano accorgersi di colpo che la guerra feroce, scoppiata anni fa in luoghi distanti, in qualche modo anche fantastici, ha ormai intaccato il suolo nazionale, fin nelle vallate alpine e nei borghi sonnecchianti di provincia: ormai la guerra non è più lontana.

Quella di aiutare, nascondere, sfamare i soldati sbandati e i prigionieri in fuga dai campi di concentramento lasciati incustoditi è stata una scelta spontanea e istintiva, che è il segno di una presa di coscienza della necessità di schierarsi; quindi, era anche la via per un ingresso graduale nel movimento partigiano.

Uno dei nuclei centrali dell’esperienza resistenziale è proprio la necessità di quella scelta, a causa della posta in gioco molto alta, capace di coinvolgere anche chi fino ad allora era rimasto ai margini della vita politica italiana: dopo anni di espropriazione della libertà di scelta, finalmente si presentava la possibilità di decidere autonomamente. E questo ha un significato tanto più grande per il genere femminile, tradizionalmente subalterno e incapace di iniziativa e decisione personale.

Interessante e indicativa di tale processo di avvicinamento è una recente testimonianza diretta di una certa Pierina Tavani (ce ne sono molte altre, ma riportiamo solo questa per ovvi motivi di spazio):

«...abitavamo in campagna e l’8 settembre passavano tanti militari in fuga... e mia madre gli dava da mangiare; finché abbiamo potuto, gli abbiamo dato anche dei vestiti, ma poi non ne avevamo più. Poi si è saputo che si erano ribellati al fascismo e, poco alla volta, abbiamo cominciato a dire: andiamo in montagna».

Le funzioni, i compiti e i ruoli ricoperti dalle donne nella Resistenza furono vari e testimoniano diversi gradi di coinvolgimento nel movimento partigiano.

La scelta resistenziale, nelle stesse dichiarazioni delle loro testimonianze, appare inizialmente come una scelta di disobbedienza e di dissenso nei confronti di quel regime che per vent’anni aveva rappresentato l’autorità: è un grande passo in avanti, perchè si tratta di una scelta che rappresenta la presa di consapevolezza di non essere solo oggetti, remissivi recettori di propaganda, ma soggetti politici, attivi creatori di relazioni, legami, mutamenti nazionali e sovranazionali.

Ovviamente, le motivazioni sono state varie: insopportabilità di un mondo divenuto teatro di inaudita ferocia; ribellione contro i soprusi remoti e vicini; istinto di autodifesa; desiderio di vendicare un congiunto caduto; spirito di avventura e amore del rischio; tradizioni famigliari di antifascismo; amor di patria; odio di classe.

Tuttavia, alla varietà delle motivazioni corrisponde un carattere di fondo: si tratta di una decisione essenziale, decisiva per gli effetti che produrrà sulla vita delle donne, e totalizzante, in quanto richiede un  impegno forte e implica altissimi rischi. Ad ogni modo, la tendenza prevalente fu quella di affidare alle donne compiti tecnicamente più adatti per via della minore diffidenza che esse suscitavano nel nemico, come quelli di staffetta e di informatrice, oppure quelli più tradizionali, separati e subalterni, di infermiera, di cuoca, di rammendatrice ecc.

Erano in effetti poche le donne che partecipavano ad azioni armate, un po’ in tutta l’area. Le donne che si univano alle bande, vivendo così la dura esperienza della montagna furono certamente una minoranza, e ancora meno furono quelle che accettarono di brandire un’arma, di sparare, di uccidere. Ma questo non deve far credere che il loro contributo alla Resistenza sia stato di poco conto, in quanto molte azioni furono possibili proprio per la loro collaborazione a tutti i livelli.

Se il diritto-dovere di imbracciare armi è tradizionalmente appannaggio maschile, in quel frangente essere «vere» combattenti voleva dire anche subire una trasfigurazione, cambiare completamente stile di vita, perfino dover indossare abiti da uomo, evidentemente più pratici nelle azioni di guerra. Dunque, la difficoltà nell’assumere un ruolo diverso, «fuori dagli schemi», si percepisce anche nell’oscillazione tra seduzione per le armi e ripugnanza ad usarle, che è comunque comune a moltissime memorie resistenziali, anche maschili, ma che si fa particolarmente problematica per le donne, per le quali il secolare dilemma tra la rivendicazione dell’uguaglianza e l’affermazione delle diversità sembra dunque riassumersi, in quella situazione di emergenza, nella scelta tra sparare e non sparare.

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