di VANNI CLODOMIRO
Secondo la narrazione antifascista, il popolo italiano è stato trascinato da Mussolini e dai suoi scherani in una guerra invisa, a fianco di un alleato detestato come la Germania. Ma, non appena la dittatura ha allentato la presa, il popolo italiano ha mostrato i suoi veri sentimenti antifascisti e tutti hanno partecipato alla lotta di liberazione nazionale: non solo le forze armate e i partigiani, ma anche i civili, che sostennero la Resistenza pagando un grave contributo di sangue.
Secondo altri, invece, nell’urgenza della lotta politica, venivano elusi alcuni passaggi fondamentali, quali l’esistenza di un consenso popolare al fascismo, il favore dell’opinione pubblica alla guerra a fianco della Germania in vista di una rapida vittoria e il carattere di guerra civile della Resistenza.
Nei decenni successivi, la memoria della Resistenza diventa terreno di aspra contesa politica, spezzandosi tra la Resistenza «nel segno della libertà», evocata dalla Democrazia Cristiana e dalle forze moderate, e la Resistenza come «rivoluzione interrotta» attorno a cui mobilitarsi, evocata dalle sinistre. Senonché, negli ambienti storici, si alza la voce di Renzo De Felice, il quale sostiene (in due interviste a Giuliano Ferrara sul «Corriere della Sera», dicembre 1987 e gennaio 1988) che l’antifascismo di matrice resistenziale è ormai insufficiente per creare una vera democrazia repubblicana. Il nodo storiografico della sua ricostruzione è la descrizione degli avvenimenti del biennio 1943-1945 come guerra civile tra due fazioni minoritarie, subìta dalla maggior parte della popolazione che pensava soltanto alla sopravvivenza quotidiana.
Qualche anno più tardi crolla il sistema politico del cinquantennio postbellico. Con l’apparizione di partiti estranei alla lotta resistenziale, e specie con l’ingresso, nel 1994, nell’area di governo del Movimento Sociale, poi Alleanza nazionale, l’offensiva culturale contro l’antifascismo diventa concreta pressione sulle istituzioni dello Stato a dar corso a una nuova memoria pubblica pacificata, capace di lasciarsi alle spalle la contrapposizione ormai logora fascismo/antifascismo, riconoscendo così pari identità nazionale: dovrebbe dunque essere giunto il momento di una memoria condivisa da tutti gli italiani, su cui fondare quella tale identità.
A questo proposito, a noi sembra in verità un po’ bizzarra l’idea della necessità di una memoria condivisa (sostenuta peraltro anche da qualche noto esponente della Sinistra come Luciano Violante), in quanto siamo convinti del fatto che, storicamente, tutte le grandi nazioni democratiche che sono nate da traumi e guerre civili si reggono su salde memorie pubbliche elaborate dalla parte vincitrice. L’attacco al paradigma antifascista, peraltro già indebolito dal dibattito interno alla Sinistra degli anni ottanta, viene condotto con lucidità, ma l’area politico-culturale del nuovo blocco conservatore non riesce comunque ad elaborare una tradizione alternativa: si attacca il 25 aprile, ma non si è in grado di dire con cosa sostituirlo; si scredita una classe politica, ma non si indicano i modelli cui fare riferimento nella storia italiana. Si linciano gli esponenti della cultura antifascista, prediletti i terribili azionisti, ma non si è in grado di recuperare all’interno del pensiero democratico una tradizione culturale alternativa.
Pertanto, a partire proprio dal 1994, si assiste ad un’imponente mobilitazione attorno alla Resistenza. Nuovo coagulo della memoria antifascista diventa il ricordo delle stragi e delle brutalità dei nazisti e dei repubblichini di Salò. Dunque, gli italiani sono vittime del nazifascismo. A questo punto, però, è opportuno fare qualche precisazione: bisogna cioè anche dire che c’è un sia pure involontario risvolto negativo di questa raffigurazione, che consiste nella rimozione delle colpe degli italiani dietro al comodo alibi del «bravo italiano». Si eludono così i temi quali il colonialismo italiano, la persecuzione antiebraica, la partecipazione italiana alla guerra dell’Asse e le politiche di occupazione portate avanti nei territori aggrediti.
Fatta questa brevissima ma necessaria parentesi, ci sembra opportuno, a questo punto, fare un cenno al pensiero del Presidente Carlo Azeglio Ciampi, che possiamo, senza la minima forzatura interpretativa, considerare come il Presidente che ha voluto rifondare la memoria della Resistenza. Egli, in aperta polemica con Galli della Loggia, che aveva ritenuto morta l’idea di patria, ha riaffermato il carattere della Resistenza come guerra di liberazione nazionale, ispirata ai valori risorgimentali declinati in senso mazziniano, permeati cioè dal rispetto degli altri popoli e dal senso di fratellanza europea, il cui orizzonte è stato la conquista della democrazia, tradotta poi nella Costituzione repubblicana.
Sono tre i capisaldi del pensiero di Ciampi: 1) l’idea di «Resistenza allargata», in cui convivono la resistenza attiva dei partigiani, la resistenza silenziosa delle persone che prestarono aiuto ai feriti, e la resistenza dolorosa dei prigionieri nei campi di concentramento; 2) la dimensione europea della Resistenza, che accomuna gli italiani agli altri popoli europei; 3) la promozione di una memoria intera, che non trascuri alcun aspetto della storia del Paese e che sia fondata sulla giustizia.
A questo punto, ci sembra di poter dire che, se da un lato si tratta della riproposizione della classica tradizione antifascista, dall’altro bisogna riconoscere a Ciampi il merito di aver stabilito la salda connessione tra la Resistenza italiana e le Resistenze europee, che oggi appare davvero come la nuova frontiera della memoria antifascista.
Per concludere, diciamo che, come è noto a tutti , ogni momento storico presenta luci ed ombre, e che non si può pretendere che tutto il bene sia solo da una parte o dall’altra. Quindi, pur riconoscendo che sono state commesse azioni terribili anche dai partigiani, tuttavia ciò non fornisce una spiegazione sufficientemente chiara della Resistenza. Spiegazione a cui bisogna invece pervenire, al di là e al di fuori della memoria, variamente colorata, delle parti politiche. E la spiegazione deve collocarsi in una visione storicamente molto ampia, ma precisa: la Resistenza fu essenzialmente una lotta furibonda contro la tirannia e rappresentò l'unità di tutte le forze democratiche (Partito comunista, socialista, d'azione, democristiano, liberale, repubblicano, tutti nel Comitato di Liberazione Nazionale). Che fosse intesa come «segno della libertà» o come «rivoluzione interrotta», sta di fatto che il bersaglio della Resistenza fu la dittatura nazifascista. Se poi si vuole pensare che «brave persone» militassero anche, ad esempio, tra i repubblichini di Salò, nessuno lo vieta; però, bisogna affermare con forza e con convinzione che in ogni caso la Resistenza, non solo italiana, assolse all’importante funzione storica di debellare le dittature, cosa che nessuno potrà mai mettere in discussione. Dunque, dopo la Resistenza, o meglio le Resistenze, la vita dei cittadini italiani ed europei è decisamente cambiata.
Testata giornalistica registrata presso il tribunale di Catanzaro n. 4 del Registro Stampa del 05/07/2019.
Direttore responsabile: Enzo Cosentino. Direttore editoriale: Stefania Papaleo.
Redazione centrale: Via Cardatori, 9 88100 Catanzaro (CZ).
LaNuovaCalabria | P.Iva 03698240797
Service Provider Aruba S.p.a.
Contattaci: redazione@lanuovacalabria.it
Tel. 0961 873736