di GIOVANNA BERGANTIN
E’ l’estate giusta per visitare la Calabria ricca di opere d’arte e per metterci a girovagare tra le botteghe coloratissime dei “mastri pignatari”. Le giornate calde e ventilate si prestano alla ricerca dei luoghi fuori mano dove ogni scoperta è meraviglia e ogni passo nel passato mostra il nostro futuro. Itinerari piacevoli e apprezzati soprattutto da quando siamo rimasti chiusi in casa e abbiamo cambiato il modo di vedere la vita e il suo mondo. Per compensare la clausura con la libertà ci sentiamo tranquilli nel percorrere a tempo lento un tratto di storia, alla scoperta delle tradizioni e delle radici. Seminara, sul versante settentrionale dell’Aspromonte, nell’entroterra di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, è tappa del nostro itinerario. Un mondo di cultura e identità da scoprire per la fiorente produzione di ceramica artistica di vivace impronta popolare.
“ Siamo alla terza generazione di “pignatari”. Ora i “chiamunu ceramisti”, ma noi siamo sempre stati mastri pignatari” - dice lesto Antonio Ditto in gergo reggino, sommerso tra le sue opere, nell’atelier dove le crea. Nell’ampio laboratorio c’è tutto ciò che serve per modellare le famose creazioni artistiche che sbucano da ogni dove: riposte in fila su ripiani che arrivano fino al tetto, accavallate le une sulle altre negli angoli, davanti gli ingressi del forno, ovunque, costringendo a passarci in mezzo e camminare in fila indiana.
“In fondo ho accumulato l’argilla grezza cavata in zona, accanto ci sono le ceramiche ancora crude che vanno messe nel forno per la prima cottura – spiega i passi del suo impegno il maestro, mostrando gli oggetti sistemati nel loro ordine - Quei vasi accatastati e quelle maschere apotropaiche, invece, sono usciti dal forno e aspettano la verniciatura per la seconda cottura, poi partono per l’Inghilterra”.Un mondo di estro e di arte che non trova spiegazione nelle parole e che si fatica a capire se non è accompagnato dal rumore stridulo del tornio e dalla vista della torretta che ruota veloce, intanto che le mani calme, sicure ne seguono il ritmo per creare e modellare la creta.
E a dimostrazione dell’abilità manuale, il maestro Ditto, prepara “bumbuleji”, caraffe smaltate a metà, “graste”, vasi da balcone,
“cannate”, boccali e pignate di tutte le fogge, con manici e ghirigori che vengono aggiunti subito per “far asciugare tutti i pezzi insieme”, altrimenti non seguono gli stessi tempi di cottura. “Plasmati sul tornio, qui lo faccio solo io – si duole Antonio, mentre passa e ripassa nervosamente una palla di creta informe da un palmo della mano all’altro – si lasciano asciugare e si mettono a cuocere uno sull’altro, “caricando” il forno di tutti i pezzi realizzati, insieme. Bisogna completare il carico per accenderlo” . Il forno è un impianto complesso, con due ingressi separati: nel primo ambiente si percorre una scala per giungere alla cupola che si carica lateralmente da un’ apertura chiusa con un battente di ferro. L’altro passaggio porta dove si trova la bocca che alimenta il fuoco con nocciolino lavato e fa salire la temperatura. “Tutto rimesso a nuovo, dai muratori, ma fatto su mia indicazione - ci tiene a specificare Antonio, illustrandone il funzionamento- perché è così come era da quando ci siamo trasferiti negli anni ‘80 con mio padre, dal borgo dei pignatari, dove eravamo in fitto”. Un laboratorio di appena “20-25 metri, dove si faceva tutto quello che facciamo oggi, sempre uguale. Domenico, mio padre, è nato e cresciuto nella bottega di ceramista di mio nonno Peppe. Mise su famiglia presto e fu costretto ad imparare l’arte, insieme ai miei zii. I tempi erano più duri, alla cava, la creta bisognava scavarla “cu picu”, oggi si tira con gli escavatori, bisognava bagnarla e pestarla col tallone dei piedi, per ripulirla e poi si raccoglieva in grandi balle. Al tornio c’era mio nonno, mio zio Peppino, poi mio padre e dopo è toccato a me”. Racconta il lavoro che cambia nel tempo, l’eredità artigiana che passa la mano, ma rimane sempre dura e alla continua ricerca di manodopera.
“ Mio padre faceva i modelli e realizzava dieci, quindici pezzi, li preparavamo per le fiere; adesso bisogna farne molti di più, ma si fanno poche fiere. Chi vuole viene a prendere le opere qui e poi se le trasporta, io con l’aiuto di Roberto Raco penso solo a produrre. Da ieri abbiamo caricato e acceso il forno con questo caldo feroce, stanotte si è raffreddato e dobbiamo aspettare 24 ore prima di aprirlo”. E’ sera ed è già mattina, nuovo giorno, verrebbe da dire. Già, perché i Ditto ricordano tre generazioni di maestri che trasmettono l’arte di foggiare al tornio l’argilla di Seminara e hanno messo ad asciugare al sole “lancelle”, “gabbacumpari” e “pignati vasci e iati” pentole di ogni altezza e misura, maschere dai volti orrendi da appendere all’uscio per tenere lontani gli spiriti maligni e “vozzarelle”, bottiglie con figure antropomorfe di “babbuini”, gendarmi e padroni, di calavriselle, donne con le mani ai fianchi, con, in equilibrio, i pesi portati sulla ghirlanda in testa, borracce e lampade a forma di animali, “ciambelle”, fiaschette anulari decorate con fiori, benaugurali per gli sposi, ma comode per il contadino a trasportare il vino nei campi. “Giarre” per olio, vino e olive,” tiani”, per la cucina, che un tempo avevano la funzione di conservare e trasportare, ma ora vere opere d’arte che i maestri Ditto hanno modellato, prima di metterle a cuocere nel forno per due volte, in prima cottura per essere biscottati, e poi invetriati e dipinti con i soli colori che si sono lasciati in eredità. ”Li preparo da me con il verde ramina, il giallo ferraccia e il blu manganese. Le tipiche striature che si vedono si producono quando i pezzi smaltati si mettono impilati per l’ultima passata nel forno. La temperatura alta fonde i colori dello smalto che, colando dall’alto verso il basso, creano l’effetto caratteristico di queste terracotte”. Il risultato finale è fatto da piccoli capolavori, uno diverso dall’altro in qualsiasi caso, ognuno con la firma dell’artista che l’ha creato. Anche Francesca Ditto, otto anni, figlia di Domenico, uno dei fratelli che dà una mano ad Antonio, mostra fiera le opere migliori di nonno Domenico in esposizione a pochi passi dal laboratorio e infine presenta le creazioni con la sua firma. Frequenta con molta predisposizione e passione il laboratorio di ceramica promosso dal vicino Museo della Ceramica di Seminara.
“ Da quando mio padre ci ha lasciati, i miei fratelli mi danno una mano, - conferma Antonio - ma “’nta rota” ci sono io, sono l’unico della famiglia che, per ora, continua l’attività. Abbiamo clienti fissi e ormai facciamo solo qualche fiera di antica tradizione. Le opere sono frutto di passione e creatività, ma ci costano molta fatica e volontà se si vuole mantenere intatta questa eredità che ci è stata consegnata”, spiega Antonio con amara verità.
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