di MARCELLO FURRIOLO
Maria Fida Moro ha scritto una lucida e impegnativa lettera al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, apparsa oggi su questa testata.
LEGGI QUI LA LETTERA DI MARIA FIDA MORO
La figlia del Presidente della Democrazia Cristiana, trucidato dalla furia terrorista delle Brigate Rosse nel 1978, si è rivolta a Giorgia Meloni, come donna, come madre, come persona. Ma anche come democristiana. Con orgoglio, con dignità alta e mai incerta, la figlia del grande Statista premette che “non condivido ogni singolo pensiero di Meloni ”, ma questo non le impedisce di apprezzare il fatto che la prima donna Presidente del Consiglio sia arrivata a capo del governo italiano, “non grazie alle stralunate quote rosa (che a ben vedere suonano vagamente offensive), ma ad una grande passione, un duro lavoro e ad un percorso irto di ostacoli e tutto in salita”. Ammirando anche “la sua compostezza, la disciplina e la dignità che dovrebbero essere appannaggio di chi riveste un ruolo pubblico e che troppo spesso sono mancate”.
Ma il messaggio particolarmente profondo e umano che Maria Fida vuole lanciare a Giorgia è che “chi ha un ruolo importante viene massacrato, il più delle volte a torto, che ferisce non solo e non tanto il diretto destinatario, ma anche e sopratutto coloro che gli vogliono bene. Se crede, tenga presente che sua figlia, anche da piccola farà molto presto a percepirlo sia pure a livello inconscio. Non c’è cura, nè difesa, nè scorta. E’ così e basta. Dico questo non per amareggiarla, ma perchè lei con l’intelligenza del cuore sia preparata. Noi non dicevamo mai a nostro padre delle sgarberie delle quali eravamo oggetto per non ferirlo...Alla notizia della sua morte il mio primo pensiero è stato ‘nessuno potrà più ferirlo’.”
Una grande lezione di umanità, illuminata dai valori cristiani, ma anche un significativo approccio di civiltà politica.
Ieri sera, su RAI 1, si è conclusa la serie tratta dal film di Marco Bellocchio “Esterno notte” ispirato proprio alla tragedia dell’assassinio di Aldo Moro. Un’opera epica su una delle pagine più tragiche della storia italiana, destinata a cambiare il corso della vita politica, istituzionale e sociale del nostro paese. Il film, ovviamente, non scopre la verità su un avvenimento ancora avvolto dagli omissis, dalle doppie verità, dalle coperture istituzionali, dalle reticenze politiche, dalle ferite ideologiche ancora non rimarginate. E, infatti, la verità di Bellocchio è una verità ideologica, per come ha contestato la stessa figlia del Presidente Moro, che utilizza uno scenario umano e politico, in cui tenta, spesso riuscendoci, di rappresentare e comprendere anche i drammi e le debolezze umane dei carnefici dell'immane tragedia. Su tutti, ovviamente giganteggia la figura di Aldo Moro, incarnato, proprio così, da un monumentale Fabrizio Gifuni, che consegna all’arte cinematografica una raffigurazione fisica, psicologica, quasi pittorica, che rimarrà indelebile nella memoria collettiva.
Semmai il limite più evidente dell’operazione di Bellocchio sta nel non avere volutamente approfondire personaggi decisivi, come Andreotti, Cossiga, condannati superficialmente ad un ruolo quasi caricaturale, ben lontano dalla realtà e lo stesso Paolo VI, pietrificato da una interpretazione stranamente bloccata da parte di Toni Servillo, capace di ben altre performance. Il film, presentato in tre parti, lascia allo spettatore ampi margini di riflessione proprio sull’aspetto più sconvolgente della vicenda e cioè sulla volontà effettiva di salvare la vita di Aldo Moro. E qui sono rappresentate senza indulgenza tutte le ferite mortali che vengono inflitte da amici, colleghi e avversari all’Uomo di Stato, fino alla sua uccisione nell’incancellabile Renault 4 rossa in Via Caetani, simbolicamente a metà strada tra la sede del PCI e della DC.
Ma a Bellocchio, come a tanta parte della cultura di sinistra, che si è esercitata in tutti questi anni nell’esegesi dei fini della morte di Moro, manca il coraggio di approfondire le responsabilità morali del PCI, che unitamente ad una parte della Democrazia Cristiana soggiogata dalla linea della fermezza, di fatto e tragicamente aprì il viatico di morte agli assassini verso il più atroce delitto politico dell’età moderna.
Molti politologi hanno individuato proprio nella uccisione del Presidente Moro, il 9 maggio 1978, la data della fine della democrazia politica nel nostro paese. Da allora i Partiti, come li avevamo conosciuti nella rinascita democratica del dopoguerra, hanno finito di svolgere la loro funzione di traduzione dei bisogni e dei diritti dei cittadini, sia pure nella pluralità delle loro visioni ideologiche. Come se quei partiti, che di fatto avevano consentito la condanna a morte di Aldo Moro, avessero perso la loro legittimazione politica e morale. Preparando, tra l’altro, il terreno per la falsa rivoluzione di Tangentopoli del 1992, ordita da una parte della Magistratura militante eterodiretta, che doveva portare alla cancellazione dell’intera classe dirigente della DC e del PSI. Mentre il PCI, che nella vicenda Moro aveva avuto una parte ideologicamente preponderante, poco più in là nel 1994, con la Bolognina voluta da Achille Occhetto, doveva pagare il suo conto con la storia, ammainando le bandiere rosse e la sua matrice ideale.
La storia di questi anni è la storia dell’eclissi della politica, della fine dei partiti, del dominio del populismo e del sovranismo in tutte le sue declinazioni movimentiste. Ma è anche la storia che tenta di appropriarsi dello spazio dei ricordi proprio a 100 anni dalla Marcia su Roma, con un tentativo maldestro di riportare indietro le lancette e rinnovare impropriamente il conflitto tra Fascismo e Antifascismo, all’ombra del successo della destra di FdI.
A distanza di 44 anni da quell’esecrabile assassinio di Aldo Moro, la figlia Maria Fida, con la lettera indirizzata a Giorgia Meloni “come donna, madre, persona”, forse compie un gesto di grande significato politico, di cristiana riconciliazione, che i politici cooptati di oggi dovrebbero saper cogliere.
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