di EDOARDO CORASANITI
Il caso dei professori-molestatori dell’Università Magna Graecia di Catanzaro e dell’Università della Calabria di Cosenza apre nuovamente il dibattito su due macro-argomenti.
Il primo, evidente, sulla violenza contro le donne. Soprattutto quando a subirla sono ragazze assoggettate da potere o da vincoli professionali, la prepotenza degli uomini straborda qualsiasi limite accettabile. Anche al di là delle valutazioni di carattere penale che se ne possono dedurre, il machilismo si conferma una presenza ancora fastidiosa e pericolosa e le ragazze fanno più che bene a uscire dal guscio che le tiene prigioniere.
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L’altra questione, invece, è meno diretta ma non altrettanto trascurabile. Ricapitolando: domenica scorsa il gruppo “Fem.In Cosentine in lotta” inizia a pubblicare delle Instagram Stories con le molestie che moltissime studentesse avrebbero subito nel corso di questi anni e, in particolare, nel periodo di Dad. Si mescola di tutto: ammiccamenti, labbra sfiorate, provocazioni, volgarità, oscenità in luoghi pubblici, occhiali tolti, gambe accavallate. Nella maggior parte dei casi i protagonisti sono alcuni professori dell’Umg e dell’Unical che in poche ore entrano nel mirino di chiunque sia entrato nel profilo delle attiviste. Anche i giornali ne restano affascinati, riportano qualche testimonianza (LEGGI QUI), seppure senza mai citare studentesse o docenti. Al contrario, invece, sul profilo Instagram i nomi e i cognomi di quest’ultimi sono per esteso.
Non bisogna essere hacker per dare un volto a quei nomi. Mente chi dice di non aver cercato sui propri social il nome di un professore accusato dal Tribunale di Instagram e, dunque, cristallizzato un giudizio.
E’ la materializzazione del processo di piazza, la gogna, il bombardamento mediatico, dove le responsabilità personali si mischiano, ognuno è colpevole di tutto e tutti sono colpevoli per ciascuno. Tantissime iniziano a raccontare altre cattive avventure e capire quale sarebbero state commesse da un professore piuttosto che dall’altro diventa un’operazione impossibile. Come in un fuoco isterico e forcaiolo, si costruisce una caccia alle streghe. E’ la parafrasi perfetta della presunzione di colpevolezza: c’è un colpevole, che non ha possibilità di difendersi, di provare il contrario o chiarire. Il giudizio anticipato del popolo di Instagram è emesso, al di là di qualsiasi risultato che produrrà una eventuale indagine penale. Il mostro è in prima pagina, o nelle “stories in evidenza”.
Ma questo è un male, una distorsione del nostro sistema, che consente di crocifiggere tutti e tutte in un battibaleno con una sommarietà degna del miglior sistema giustizialista. Che, attenzione, non è solo una propensione alla superficialità dell’esercizio dell’azione penale ma è anche l’attitudine a soluzioni facili ed immediate, alla non distinzione di chi ha una colpa e chi ne ha meno: è derattizzare. Ma in fondo non c’è da stupirsi: siamo tutti colpevoli fino a prova contraria, come vuole il Davigo pensiero.
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