Riace terra-madre, I bronzi, un padre morente e il diritto alla vita

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Franco Cimino
  20 agosto 2019 18:31

Roberto Lucano, novantatré anni, sta per morire, così dicono le cronache. È il papà di Mimmo, il dimenticato eroe dei due mondi, quello opulento e sviluppato, e quello della miseria, delle guerre, della povertà.

Questi due mondi, nelle loro due parti molto considerevoli, sono separati da un solo mare, il quale, essendo unico, non può essere né dell’uno né dell’altro. Fermiamoci qui un solo istante per dire, con altra chiarezza, che che se il mare è uno solo, nonostante quelle stupide divisioni in acque territoriali, vuol dire che una sola è l’umanità che può servirsene. E siccome è largo e profondo, non limitabile e non quantificabile, ancor di più vuol dire che esso non è fatto solo per donare il pesce per la tavola e l’economia, ma per far navigare le persone verso una meta. Il mare, quindi, più che l’aria, è sostanza di vita, essenza di libertà.

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Mimmo Lucano è stato per un pugno di anni il sindaco di Riace. Il piccolo paese che, da una collinetta bassa, scende dolcemente sul suo mare, il testimone più grande della civiltà antica, per aver consegnato al mondo i due guerrieri, forse proprio peri incaricare quel paesino di farsi promotore della più grande azione di democrazia e libertà. Quella di costruire la pace attraverso la giustizia e l’umanizzazione del potere.

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Mimmo Lucano, idealista e sognatore, si è sentito investito dalla storia di questa responsabilità e ha agito in nome dei guerrieri di bronzo e del mare che li ha portati a noi e conservati intatti per noi. A ben pensare, da quel 16 agosto 1972, giorno del rinvenimento delle due statue, forse nessuno ha creduto che quel dono fosse un lascito della storia, un testimone, un messaggio per la nuova umanità, che il mare avrebbe consegnato quando il mondo ne avrebbe avuto più bisogno.

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È questo che avrà sentito in p petto Mimmo Lucano? Questa la missione di cui si è sentito investito, da quella sorta di religione, per lui forse ateo, che concepisce Dio nella sofferenza degli uomini? E nel loro dolore? E nella loro fatica a cercare la pace? Dio è vita perché non solo è depositario della vita degli esseri umani, ma perché si trova incarnato in essa? Sono le domande a cui, nonostante le diecimila telecamere e taccuini che da tutto il pianeta gli sono stati messi davanti, Lucano non ha potuto rispondere perché nessuno gliele ha poste, almeno in questa rapida batteria. Lui, però, quella missione l’ha portata avanti, spingendola, come tutti gli idealisti, i moralisti, gli asceti, oltre la legge.

Ma, la legge che non guarda a nessuno per l’unico compito che essa ha nel guardare solo a se stessa, lo persegue per la violazione di numerose norme della stessa. Il sindaco non ha commesso reati contro la persona, ma per aver aiutato le persone più deboli e indifese. Non ha rubato o corrotto la sua sua funzione, ma inventato lavoro per i deboli con una certa “ leggerezza” , diciamo, gestionale. Non è un mafioso, non è un delinquente con precedenti che lo certifichino, non è un corrotto, non un ladro. Addirittura, non si sarebbe mai appropriato di una sola lire, le sue tasche sono vuoti e di conti in banca non ne ha. Eppure, la legge di uno Stato democratico (il nostro, ancora lo sarebbe) che ritiene colpevole un suo cittadino solo al compimento di tutto l’iter processuale, anticipatamente lo “ punisce” con la peggiore condanna: il divieto di dimora nel suo paese. Una sorta di confino che il fascismo comminava ai suoi nemici capitali, gli antifascisti e democratici, e il nuovo Stato democratico ai mafiosi e ai più pericolosi sospettati di terrorismo.

Ora è più di un anno che, a processo in corso e, pertanto, ad indagini concluse, l’ex sindaco di Riace, uomo che non farebbe male a una mosca, disarmato in tutto, anche della precedente ampiezza di simpatia popolare e dei sostegni politici più ipocriti, abbandonato da molti, specialmente da quei furboni che hanno voluto sfruttarne l’immagine, non può far ritorno a casa. Nella sua. Quella paterna in cui sta per morire l’anziano padre che del figlio ne invoca continuamente il nome. Io sono un uomo che rispetta ogni granello di sabbia dell’ordinamento del suo paese e di fronte alla legge si inchina.

Di più, sono un cittadino che ama la Costituzione così com’è. In particolare, in quel filo sottile che lega ogni suo articolo al primo dei principi: il rispetto della vita, della sua dignità e del valore assoluto della persona. Nella vita e nella persona ci sono le radici, fonti inesauribili del legame dell’uomo alla sua vita e alla sua storia. Alla sua terra. Se il novantenne ammalato Roberto è padre con le sue braccia ancora forti per abbracciare il figlio, Riace è madre di quello stesso figlio. Madre con il grembo ancora intatto per curarlo e proteggerlo, acquietarne il dolore, riposarlo, incoraggiarlo per le nuove battaglie.

Terra- madre, in attesa di un tempo, di certo ancora assai lontano, in cui per sempre sia restituito alle braccia di quella naturale, che, come tutte le mamme, i figli attende. Per questo motivo, solo per questo e non per carità e suppliche, giammai per il permesso del tempo di un’agonia o di un funerale, Mimmo Lucano deve subito tornare al suo paese. Per quel diritto alla vita, costituzionalmente garantito, che il limite di una legge non comprende.

Franco Cimino

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