Violenza contro le donne. Il caso della cosentina Roberta Lanzino: dopo 33 anni nessun colpevole

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Roberta Lanzino
  25 novembre 2021 08:50

di CLAUDIA FISCILETTI

Nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne è importante ricordare un caso, purtroppo ancora irrisolto, che è sconosciuto ai più. Il caso di Roberta Lanzino è il tipico esempio di crudeltà ingiustificata nei confronti di una donna, in questo caso una ragazza di 19 anni che viveva a Rende, in provincia di Cosenza, e che nel luglio del 1988 si apprestava a trascorrere la sua prima estate da studentessa universitaria nella casa a mare della famiglia Lanzino, a Miccisi di San Lucido, distante meno di 50 minuti da Rende. Nella tragedia che pone fine alla breve vita di Roberta risulta di vitale importanza il tempo. I minuti che scorrono, con la giovane che guida il motorino Piaggio ‘Si’ del fratello diretta verso la casa del mare, diventano una ricerca disperata per la vita, i secondi diventano un disperato tentativo per aggrapparsi all’ultimo respiro vitale. Fa indignare il fatto che, a distanza di 33 anni, ancora non sia stato trovato il colpevole (o i colpevoli) di un gesto tanto crudele ai danni di una ragazza che parenti e amici hanno sempre descritto come allegra, semplice, pulita, con tanta voglia di vivere. Per l’argomento tanto caldo della violenza sulle donne, la drammatica sorte di Roberta assume un’attualità sconcertante, che fa addirittura indignare ed arrabbiare se si pensa che poche cose sono cambiate da allora. Le donne sono riuscite ad ottenere più diritti ed attenzione, ma talvolta i casi di violenza di genere rimangono irrisolti o impuniti per le più svariate cause, dalla mancata denuncia della vittima all’insufficienza di prove giudiziarie. Fa indignare che le donne, tanto degli anni Ottanta quanto degli anni Duemila, debbano ancora rivendicare il loro diritto a camminare in sicurezza da sole per strada, senza temere di essere aggredite, stuprate e uccise, e soprattutto, devono ancora rivendicare il loro diritto nell’avere giustizia dopo aver subito un atto deprecabile come la violenza fisica e/o psicologica. Per questo oggi bisogna raccontare la storia di Roberta Lanzino. Procediamo con ordine;

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IL 26 LUGLIO 1988, IL RACCONTO DELLA MADRE DI ROBERTA A ‘BLU NOTTE’ - Faceva caldo, come ogni estate che si rispetti in Calabria. Roberta aveva concluso il primo anno di Economia e Commercio all’Università della Calabria e si apprestava a trascorrere l’estate con la famiglia e gli amici nella villetta a mare dei Lanzino. Quel giorno il padre di Roberta, Franco, era a lavoro in banca e sua madre Matilde, sua sorella e lei hanno organizzato le ultime cose da portare nella casetta di Miccisi. Roberta propone di portare il motorino del fratello, il Piaggio ‘Si’, che può sempre servire e concorda con la madre che lei sarebbe andata avanti con lo scooter mentre i suoi genitori l’avrebbero seguita in macchina. Tutti i dettagli di quel giorno sono raccontati da Matilde Lanzino in una puntata di Blu Notte, trasmissione condotta da Carlo Lucarelli. Roberta chiama suo padre, sempre a lavoro, per concordare la strada da prendere optando per la strada vecchia e non per la superstrada che era meno sicura per il transito di un motorino. La strada vecchia, invece, è più lunga ma anche più sicura, nonostante presenti una serie di bivi e biforcazioni in grado di confondere chi non pratica quel tratto abitualmente. Roberta parte con il motorino nel pomeriggio del 26 luglio, diretta alla villetta a mare di Miccisi: “Nello stesso tempo arriva mio marito, apre il garage e carichiamo alcuni pacchi della spesa. E si perdono i primi 5 minuti”, racconta la mamma di Roberta che spiega come per la strada per Arcavacata “ci fermiamo per prendere un cocomero. L’esercente parla con mio marito di questioni sindacali, quindi passano altri 5/6 minuti”. I Lanzino, poi, fanno un’altra deviazione per riempire i bidoni dell’acqua: “Alla fontana c’era già un signore, quindi abbiamo aspettato. Si saranno persi altri 8 o 10 minuti”. Nella trasmissione di Lucarelli la mamma di Roberta afferma: “Da questo punto in poi comincio ad essere in ansia perché faccio la somma delle nostre fermate e mi rendo conto che è passato un po’ di tempo. Ho paura che non raggiungeremo Roberta, come in effetti succede”. Alle 18.20 i coniugi Lanzino arrivano alla villetta, ma non trovano la figlia e pensano che si sia persa lungo la strada che, va ricordato, è piena di bivi e biforcazioni in cui è facile confondersi e perdersi, oltre ad essere caratterizzata da crepacci, dirupi e rovi. “La prima cosa che pensiamo è che avesse sbagliato strada”, spiega Matilde Lanzino. Roberta o si è persa, o forse le si è fermato il motorino, o è rimasta coinvolta in un incidente.

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LE RICERCHE E IL TRAGICO RITROVAMENTO - Non esistevano i cellulari all’epoca, per questo il padre fa a ritroso la strada che avrebbe preso la figlia, ma quando le sue ricerche non portano a nulla decide di chiamare i carabinieri di San Lucido. Cercano Roberta per tutta la notte e, all’una circa, viene ritrovato il suo motorino, su un troncone della strada vecchia che però non è quello che avrebbe dovuto percorrere la giovane. Lo scooter viene controllato, non è in avaria, quindi si esclude l’ipotesi di un incidente mentre, purtroppo, si fa avanti l’ipotesi di un rapimento, una pratica comune negli anni Ottanta. Ma quest’ultima teoria viene scartata quando, qualche ora più tardi e qualche metro più in là, celato da erbacce e rovi, viene ritrovato il corpo senza vita di Roberta con i segni di quella che il medico legale successivamente definirà una violenza “animalesca”. C’è del sangue, sul terreno appena sotto il corpo di Roberta, sulla maglietta, sul reggiseno, sugli slip e sui jeans, questi ultimi strappati e buttati poco lontano. La maglietta e il reggiseno sono arrotolati sul petto, ha il volto tumefatto, il collo tranciato da ferite probabilmente inflitte da un coltello. Su gambe collo e braccia ci sono una serie di ferite ed escoriazioni e, come se non fosse sufficiente, le sue spalline sono state appallottolate ed infilate giù per la sua gola. Si stabilirà, dopo l’esame autoptico, che è morta per soffocamento.

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IL TRAGITTO DI ROBERTA – Per fare luce sulla vicenda viene ricostruito il tragitto che ha fatto Roberta non appena ha lasciato la sua casa in motorino, verso le 17. Alle 17.45 viene vista da un agricoltore che sta lavorando ai bordi della strada di Torremezzo di Falconara Albanese. Poco dopo, verso le 18, Roberta è ferma ad osservare la segnaletica e viene raggiunta dal furgoncino dei fratelli Tonnera a cui chiede preoccupata delle informazioni per la strada di Torremezzo. Non Miccisi, Torremezzo che è una frazione vicina. I Tonnera le dicono di seguirli fino al prossimo bivio dove, poi, lasciano Roberta per andare in un’altra direzione. Mentre si allontanano, i fratelli vedono arrivare una Fiat 131 di vecchio tipo con un uomo magro e biondo alla guida. La stessa auto viene notata anche da altre persone che lavorano lungo la strada e la vedono passare sempre dopo Roberta. Alle 18.10 la giovane si ferma a chiedere informazioni ad un altro agricoltore, Luigi Frangella, poi riparte. Quella è l’ultima volta che Roberta è stata vista in vita.

LE INDAGINI – Escluse le ipotesi di incidente e rapimento, partono le indagini per capire chi sia il responsabile di un'azione tanto orrenda. Il primo sospettato è la persona che si trovava alla guida della 131 e i carabinieri pensano di averla individuata in un pregiudicato di San Lucido che ha una macchina simile a quella vista dai testimoni. L'uomo non ha un alibi convincente e nella sua auto vengono trovate macchie sospette e sui suoi vestiti si trovano filamenti di tessuto eppure viene escluso dalla lista dei presunti colpevoli poiché le macchie non sono di sangue e i filamenti di tessuto non corrispondono a ciò che indossava Roberta quel giorno. Dunque, l'uomo esce dall'inchiesta. A questo punto gli investigatori si concentrano su Luigi Frangella che vive col fratello Rosario, anche lui contadino e pastore. Luigi racconta di aver visto suo cugino, Giuseppe, che ha un supermercato in paese, passare col suo furgone per la strada percorsa da Roberta nell'immediatezza della giovane. Naturalmente viene interrogato anche Giuseppe che prima nega di essere passato per quella strada, poi ammette di averlo fatto ma ad un'ora diversa e racconta un dettaglio in più; quel 26 luglio, dal suo furgone, ha visto Rosario correre in uno stato di grande agitazione e più avanti c'era Luigi, anche lui agitato, che si guardava intorno. Giuseppe non ricorda quale dei due fratelli urla qualcosa di simile ad un "Cos'hai fatto?".

I PRINCIPALI SOSPETTATI - L'1 agosto il sostituto Procuratore della Repubblica Domenico Fiordalisi fa arrestare Rosario e Luigi con l'accusa di violenza carnale e omicidio, e fa trattenere Giuseppe per favoreggiamento. Tra i tre, quello che desta più sospetti è Rosario poiché sono state trovate macchie di sangue sui suoi calzoni. L'uomo soffre di schizofrenia da innesto, un disturbo della psiche che coinvolge anche la sfera sessuale e che può portare a reazioni violente, motivo per cui Rosario era stato ricoverato in una struttura specializzata nei mesi precedenti l'omicidio di Roberta. Proprio Rosario, due anni prima, ha scatenato il panico in paese perché ha sgozzato 25 pecore del suo gregge, preda di un raptus. L'uomo in carcere fornisce la sua versione dei fatti: suo fratello Luigi ha ucciso Roberta, lui ha solo aiutato e, poi, si chiude in un ostinato silenzio. Successivamente, durante una perquisizione sul luogo del delitto, i carabinieri trovano un fazzoletto da uomo identico a quello trovato in casa di Giuseppe che, oltretutto, ha sulle braccia graffi ed escoriazioni che, afferma, se li è procurati la notte in cui si cercava Roberta, mentre aiutava i carabinieri a recuperare il motorino. Su questa affermazione, però, i testimoni narrano a voce unica di non averlo visto e, tra questi, c'è il padre di Roberta che, appena saputo del ritrovamento dello scooter, non ha permesso a nessuno di avvicinarsi finché non sono arrivati i carabinieri sul posto. C'è di più; Giuseppe abita proprio sulla strada e il signor Lanzino racconta che la sera in cui stava cercando la figlia, bussa alla sua porta e gli chiede se abbia visto una ragazza in motorino. Giuseppe risponde di no e insiste affinché il signor Lanzino andasse a cercare Roberta verso un'altra strada che lui riteneva più pericolosa. Un altro dettaglio fornito dal padre della ragazza è che Giuseppe, poi, entra in casa per porre la stessa domanda a sua madre, ma vi entra pochi secondi, appena il tempo di accendere la luce, quindi dubita che abbia veramente chiesto qualcosa. L'azione di Giuseppe viene interpretata come depistaggio, quindi anche lui va in carcere con i cugini, accusato di omicidio. Tuttavia i tre uomini vengono scarcerati il 16 agosto dal Tribunale delle Libertà. Le accuse di Rosario provengono da un uomo considerato incapace di intendere e di volere, quindi non sono valide, e le macchie di sangue sui suoi calzoni non è detto che appartengano a Roberta. La dichiarazione di Giuseppe, poi, non convince e il dettaglio del fazzoletto non è considerato sufficente. A questo punto le risposte vanno cercate nelle indagini di carattere scientifico; tra le dita di Roberta ci sono dei capelli, sui calzoni di Rosario ci sono le macchie di sangue, e sul corpo della giovane c'è del liquido seminale da cui si potrebbe trarre il DNA da confrontare con quello dei principali sospettati. Ci sarebbero anche le impronte digitali, ma quando i carabinieri hanno ritrovato il motorino nel recuperarlo non si sono messi i guanti e il metodo usato per rilevare le impronte sul mezzo è stato quello di alitarci sopra per guardarlo contro luce. Anche l'esame del DNA si conclude con un nulla di fatto: i reperti vengono inviati dall'istituto di medicina legale di Bari al CIS di Roma soltanto il 16 settembre e, inoltre, sembra che non siano ben conservati. Il 2 dicembre arrivano i risultati che non dicono niente di utile. I vestiti di Roberta, che potrebbero essere analizzati, sono scomparsi dalla camera mortuaria. Vengono ritrovati solo a gennaio in una cassa di zinco di una stanza dell'obitorio, a seguito di una telefonata fatta alla trasmissione Telefono Giallo, condotta da Corrado Augias. Il ritrovameno non è comunque una consolazione, poiché alcuni indumenti erano stati buttati mentre altri non erano utilizzabili. I capelli che Roberta aveva tra le dita risultano essere i suoi. Il 16 agosto 1989, il pm Fiordalisi conclude la sua istruttoria chiedendo il proscioglimento dei tre imputati. Non sono state raccolte prove sufficenti, ma il procuratore generale rovescia il parere del suo sotituto, convinto che i colpevoli siano Rosario, Luigi e Giuseppe e per questo devono essere processati.

IL PROCESSO – Il processo inizia tardi, l'1 ottobre 1991. Nel frattempo il caso di Roberta arriva in Parlamento, vie e piazze italiane le vengono intitolate e arrivano anche un sacco di denunce, segnalazioni, lettere anonime e minacce ai danni dei testimoni. Rosario, Luigi e Giuseppe, i tre imputati, rivedono molte delle affermazioni fatte in precedenza, attenuandone la portata. Lui e Rosario non correvano l'uno dopo l'altro, Giuseppe non è passato nell'immediatezza di Roberta ma almeno 10 minuti dopo. Luigi proclama la sua innocenza, Giuseppe piange e dice che non c'entra niente, Rosario manda una dichiarazione. Per gli avvocati della difesa i tre imputati sono innocenti ma utilizzati come capri espiatori di una vendetta dell'opinione pubblica. Per i pm, invece, Rosario deve essere condannato a 10 anni di manicomio giudiziario, Luigi e Giuseppe all'ergastolo.  Ma il 22 novembre 1991 la Corte assolve Luigi, Rosario e Giuseppe per non aver commesso il fatto e questo verdetto verrà confermato sia in appello che in Cassazione. La madre di Roberta, sempre a Blu Notte, ha dichiarato: "Ho pensato molto a questa assoluzione che a me è sembrata assurda. Però rispetto la legge e ho anche capito che le risposte dei tribunali non possono essere la verità rivelata. Un capro espiatorio non serve a nessuno e io potrei dire che a me non serve l'assassino perché a me servirebbe Roberta. La perdita del tempo è una responsabilità nostra che mi assumo in pieno". Nel 2015 inizia un nuovo processo sulla base di un sospetto che riguarda Luigi Carbone, allevatore scomparso per lupara bianca, e Franco Sansone, proprietario di una Fiat 131 trovata sul fondo di una scarpata a pochi metri da dove era stato abbandonato il corpo di Roberta. I sospettati, però, vengono scagionati dopo i test del DNA effettuati su eredi Carbone e su Sansone.

LA FONDAZIONE ‘ROBERTA LANZINO’ - La famiglia Lanzino ha istituito un centro antiviolenza e la Fondazione "Roberta Lanzino", con sede a Rende, che si occupa di combattere la violenza sulle donne e sui minori, l'omertà che l'accompagna e i problemi pratici che spesso ne conseguono. Proprio oggi, 25 novembre, giunge a conclusione la XVI edizione della borsa di studio "Roberta Lanzino", iniziata il 19 ottobre scorso.

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